Articolo pubblicato per lavoce.info

In Italia il costo della vita varia molto da zona a zona. Se ne deve tener conto nel fissare il salario minimo? In teoria sì, ma a costo di una maggiore complessità del sistema. Differenziarlo a livello regionale potrebbe essere un buon punto di partenza.

La geografia delle differenze nel costo della vita

Il dibattito sulla possibile introduzione di un salario minimo in Italia torna periodicamente in voga. La fibrillazione non riguarda solo l’Italia (Andrea Garnero e Chiara Giannetto hanno riassunto  le proposte in campo), lo stesso Emmanuel Macron, nel suo Pour une Renaissance européennepropone un salario minimo europeo. I meccanismi generali di funzionamento sono stati già ampiamente descritti e per questo ci soffermiamo su un aspetto specifico: la differenziazione territoriale.

Negli ultimi anni abbiamo sentito molte proposte e altrettante cifre. Concentrare l’intera discussione politica solo sulla definizione del livello di un eventuale salario minimo rischia però di ridursi a una gara a chi offre di più (o di meno) al lavoratore. La relazione fra salario minimo e benefici alla forza lavoro (tenendo a mente quindi anche i disoccupati) non è lineare, e mentre un livello troppo basso potrebbe essere inefficace, uno troppo alto potrebbe minarne la capacità redistributiva.

Il costo della vita, e di conseguenza le soglie di povertà, variano molto su base geografica. L’Istat calcola soglie diverse di povertà assoluta per macroregione (Nord, Centro, Sud) e per tipologia di comune (area metropolitana, grande comune, piccolo comune). La figura 2 (a destra) rappresenta proprio la distribuzione geografica dei nove livelli così calcolati. Vi sono esempi in alcune città degli Stati Uniti (e a Londra, in modo non vincolante con la London Living Wage) dell’istituzione di salari minimi differenziati per area urbana, alla luce delle spesso sostanziali differenze nel costo della vita fra nuclei urbani di diverse dimensioni. Anche l’Istat ha sottolineato l’importanza di questo aspetto, certificando una differenza di spesa per famiglia che può toccare quasi 500 euro al mese, fra i comuni centro dell’area metropolitana e quelli con meno di 50 mila abitanti.

Figura 1: 60 per cento salario mediano orario lordo per provincia – Dipendenti settore privato (Fonte Istat, 2016: Lavoro e Retribuzioni – Occupazione dipendente e retribuzioni – Retribuzioni orarie dei dipendenti del settore privato)
Figura 2: soglia di povertà mensile per una persona in età di lavoro per area geografica e tipologia di comune di residenza (Fonte Istat, 2013).

Tra i paesi Ocse, il livello del salario minimo rientra generalmente nell’intervallo tra il 40 e il 60 per cento del salario mediano orario. In Italia il 60 per cento del salario mediano varia, a livello provinciale, da poco meno di 6 euro ai 7,50 euro l’ora (figura 1), grosso modo in linea con le eterogeneità mostrate dalla figura 2 in termini di soglie di povertà, da un minimo di 546 euro mensili a un massimo di 820 euro. Sebbene l’intento del salario minimo non sia combattere la povertà – per la quale contano di più l’intensità del lavoro e la composizione familiare -, è comunque utile tenere a mente come ne variano le soglie perché la misura avrebbe un impatto diretto sui cosiddetti “lavoratori poveri”. Inoltre, le soglie di povertà appaiono come approssimazioni efficaci a misurare il costo della vita regionale, sul quale i dati scarseggiano.

Una proposta da cui partire

Le ampie differenze territoriali suggeriscono che una ricetta univoca per sostenere i compensi minimi non sarebbe probabilmente efficace per raggiungere l’obiettivo (fra le proposte depositate, solo quelle di Liberi e Uguali e di Fratelli d’Italia prevedono un correttivo in base a un fattore di proporzionalità regionale). D’altra parte, avere numerose soglie minime comporta una maggiore complessità del sistema e incentivi alla mobilità per sfruttare il minimo più conveniente. Insomma, la scelta del livello non dovrebbe essere il punto di partenza ma il punto di arrivo di studi ragionati sulla situazione del mercato del lavoro e delle condizioni economiche.

Quello di un correttivo a livello regionale può essere dunque un buon compromesso dal quale partire. Esistono differenze anche all’interno delle regioni, ma il gradiente principale è quello fra Nord e Sud della penisola. La sua introduzione potrà permettere di osservare le prime dinamiche di risposta, incluse differenze intraregionali, per determinare se sia opportuno o meno aggiustare la scala di intervento. Fermarsi al livello regionale comporta anche una complessità significativamente minore rispetto al livello provinciale o addirittura di dimensione del centro urbano, aumentando così la probabilità che la misura sia approvata.

La bontà o meno della differenziazione territoriale non è ovvia. Sebbene ottimale in teoria, la pratica si scontra con un aumento di complessità del sistema e con possibili usi impropri. Un correttivo regionale può costituire un primo esperimento su cui costruire una più ampia evidenza empirica. Al contrario, un salario minimo europeo, come proposto sommariamente dal presidente francese e successivamente dal governo italiano, per quanto strumento utile alla convergenza dei paesi membri, rischierebbe di rivelarsi troppo rigido in un contesto fortemente differenziato, in Italia come ancor di più in tutta l’Unione europea.

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