Articolo pubblicato per HuffPost Italia
In Italia servirebbero cinque generazioni, cioè circa 100 anni, perché i figli nati da famiglie a basso reddito raggiungano il reddito medio. Ad affermarlo è un recente report dell’Ocse sulla mobilità intergenerazionale, che in Italia è molto bassa.
I dati del report Ocse riportano infatti una forte correlazione fra il reddito dei genitori e quello dei figli: il 55% del reddito di un individuo dipende infatti dal reddito paterno, indicando un basso livello di mobilità sociale. Per fare un paragone con altri Paesi europei, si può trovare una percentuale simile in Francia e Germania (che presentano però una diseguaglianza di reddito notevolmente inferiore), mentre livelli inferiori sono presenti in Spagna (25%) e nei Paesi scandinavi (attorno al 20%).
La mobilità intergenerazionale rappresenta la possibilità per un individuo di raggiungere una condizione economica diversa (più alta, in società mobili) rispetto a quella dei propri genitori. Il livello di mobilità intergenerazionale ha un impatto significativo sulla struttura sociale del Paese, così come sulla distanza percepita fra i diversi strati della popolazione: se la mobilità è alta, anche le classi meno abbienti sentono che i loro figli avranno la possibilità di ascendere la scala sociale e accedere a ogni professione. Il risultato è una società più coesa.
La mela non cade (quasi) mai lontano dall’albero
Da queste analisi, che si concentrano sulla continuità del reddito tra padri e figli, emerge il ruolo fondamentale della famiglia. I genitori contribuiscono attraverso numerosi canali alla crescita educativa prima, e lavorativa poi, dei propri figli: investendo nella loro istruzione e orientandone le scelte, offrendo sostegno monetario e connessioni sociali, e anche trasmettendo a livello inconscio abilità, aspirazioni e aspettative.
Sempre più studi mostrano come le scelte dei genitori nei primi anni di vita e la loro condizione lavorativa e relazionale (anche se non direttamente legata al bambino) possano influenzare significativamente lo sviluppo fisico e mentale dei figli, con ripercussioni a lungo termine sui loro esiti scolastici e lavorativi.
Ciò che influisce sui livelli di mobilità intergenerazionale di un Paese, però, non è tanto il ruolo della famiglia di per sé quanto le differenze che esistono tra famiglie in diversi strati sociali, fasce di reddito e contesti abitativi. Per fare un esempio classico ma efficace, una famiglia benestante del centro città, in cui i genitori sono entrambi almeno laureati, avrà facilmente la possibilità di mandare i propri figli nelle migliori scuole, si aspetterà di iscriverli al liceo e successivamente all’università.
D’altra parte una famiglia in un quartiere periferico, con maggiori ristrettezze economiche e un livello di istruzione più basso, trasmetterà – in media – aspirazioni scolastiche più modeste e si chiederà se l’università sia un investimento effettivamente valido.
Sebbene le eccezioni siano innumerevoli, essendo la realtà più sfaccettata, i dati più recenti mostrano per l’Italia che i livelli educativi e occupazionali siano legati tra genitori e figli. Già nelle scuole superiori l’Istat evidenzia una notevole differenza nel reddito medio delle famiglie dei ragazzi che frequentano i licei (25.000€) e di quelle degli studenti di istituti tecnici e professionali (15.000€).
A livello universitario, sempre l’Istat evidenzia che il 30% degli studenti universitari abbiano almeno un genitore laureato, contro il 15% del totale dei ragazzi nella stessa fascia d’età. Considerando invece gli sbocchi occupazionali, si può notare come il 40% dei figli di lavoratori manuali abbiano un impiego e un livello di reddito simile a quello paterno.
La famiglia gioca dunque un ruolo fondamentale? Vero. La famiglia è l’unico canale di mobilità sociale? Non proprio. Il contesto scolastico, i quartieri, le realtà associative con cui giornalmente si può venire in contatto hanno un ruolo altrettanto importante e in alcuni casi rappresentano il vero determinante dell’ascensore sociale.
Quartieri come catalizzatori di disuguaglianza…
Nella realtà però, il fenomeno che si osserva è spesso l’opposto: l’ambiente esterno tende a rinforzare il divario fra classi sociali attraverso un meccanismo di segregazione geografica. Questo risulta particolarmente evidente nelle aree metropolitane (Ocse, 2018), che mostrano una netta distinzione fra quartieri – e più in generale fra centro e periferia – e una forte immobilità sociale all’interno dei quartieri stessi: chi cresce in un quartiere periferico difficilmente avrà le stesse opportunità, o le saprà cogliere allo stesso modo, di chi invece cresce in un quartiere più centrale.
Una soluzione sembra esserci: spostarsi. Un recente studio di due economisti di Harvard ha analizzato il ruolo dei quartieri sulla mobilità intergenerazionale negli Stati Uniti. I risultati parlano chiaro: l’ambiente esterno, e in particolare le caratteristiche del quartiere in cui si vive, permettono di migliorare le proprie possibilità di mobilità sociale, con effetti maggiori se l’esposizione a un quartiere migliore inizia già da piccolissimi.
Considerando persistenti le differenze tra quartieri, l’analisi mostra che la mobilità intergenerazionale è connessa alla mobilità geografica delle famiglie: sono i figli delle famiglie che riescono a spostarsi da un quartiere peggiore a un quartiere migliore a trarne i benefici.
Le implicazioni sono numerose e non necessariamente positive. Quante famiglie riescono a spostarsi in quartieri più agiati e meglio serviti, specialmente nel caso di grandi città in cui piccoli privilegi si pagano a caro prezzo? E se anche molte famiglie – per qualche inaspettato motivo – potessero abbandonare il quartiere, il rischio di un circolo vizioso di degradazione sarebbe dietro l’angolo, a tutto svantaggio di chi arriva nei quartieri più difficili e di chi ci resta.
…o come opportunità
Una soluzione alternative è invece pensare ogni quartiere, indipendentemente dalla sua posizione centrale o periferica, come una fonte di un’opportunità per tutti, e per i figli di famiglie meno abbienti in particolare.
Se un tempo erano soprattutto le parrocchie a fungere da centri di aggregazione, oggi sono sempre di più le associazioni di quartiere, i dopo-scuola, i campi sportivi a poter trasmettere gli stimoli e le informazioni che la famiglia non è sempre in grado di dare. In questo modo contribuiscono al supporto familiare, favorendo un più alto livello di mobilità sociale.
Un ruolo speciale è riservato poi alle scuole di quartiere (dagli asili alle scuole medie), che hanno il compito base di garantire un’istruzione uguale per tutti, sia nei contenuti sia nella qualità dell’insegnamento. Ma non solo: hanno il potere, e quindi la responsabilità, di andare oltre al programma scolastico, personalizzando i percorsi e le attività per adattarli anche al contesto esterno.
In Italia il numero di abitanti in aree urbane periferiche o intermedie – definite da Istat con un indice di centralità –è di circa 7 milioni. Perché queste aree offrano opportunità di mobilità sociale è necessario però che le differenze, almeno nella quantità e nella qualità dei servizi, siano progressivamente ridotte.
Servirà dunque innanzitutto studiare il fenomeno, considerando diverse aree metropolitane e combinando l’analisi della loro distribuzione geografica a una raccolta di dati dettagliata e continuativa. Si potrà così comprendere la dispersione della disuguaglianza e dei servizi e studiare cause (e conseguenze) delle differenze tra quartieri.
Solo successivamente sarà possibile elaborare, a livello sia centrale che locale, delle politiche che contribuiscano a trasformare l’ambiente esterno e in particolar modo la scuola, in un motore della mobilità sociale invece che uno strumento di perpetrazione delle disuguaglianze.