Vie legali e incentivi a tornare nei paesi di origine
Articolo scritto per l’Huffingtonpost
La politica europea continua a concentrarsi, tra Moavero e Macron, sulle emergenze in Libia e negli altri paesi di transito. Ma come abbiamo già scritto sull’HuffPost e La Stampa una gestione non miope dei flussi migratori dall’Africa deve guardare al di là delle situazioni emergenziali e concentrarsi sulle persone che migrano “per aspirazione”, ovvero per motivi di lavoro e studio, ricongiungimento familiare o residenza elettiva (escluso quindi chi fugge da situazioni che prevedono la protezione internazionale).
Le migrazioni per lavoro in Italia
Nel 2007 gli arrivi da tutto il mondo con visti per lavoro rappresentavano il 61% di chi arrivava nel nostro paese (figura 1). Nel 2017, invece, secondo l’Anpal meno del 5% dei permessi di soggiorno rilasciati è stato per motivi lavorativi e solo circa il 3% degli arrivi dall’Africa subsahariana (dati Eurostat).
La situazione del mercato del lavoro italiano per gli stranieri di origine extra-Ue è per alcuni aspetti abbastanza positiva: tra gli stranieri occupati e contratti a tempo indeterminato sono in aumento, disoccupati e inattivi in diminuzione. Sappiamo inoltre che circa l’80% dei migranti africani si muove in cerca di migliori opportunità e che 1 su 4 vuole raggiungere l’Europa. Il crollo drastico dei visti per lavoro non è quindi dovuto dal crollo della domanda di ingressi in Europa per lavorare, ma da una scelta politica.
La figura 2 mostra, tuttavia, come i visti per ricerca di lavoro siano andati quasi azzerandosi dal 1992. Con la legge Martelli, datata 1990, gli arrivi sono stati regolati dai decreti flussi (che la legge Turco-Napolitano ha reso annuali dal 2001), ovvero da un sistema di quote per paese di provenienza e/o categoria professionale che rende possibile il rilascio del visto solo in caso di firma di un contratto di lavoro prima dell’ingresso in Italia.
La quantificazione dei decreti flussi si sarebbe dovuta basare su una previsione della disponibilità di offerte lavorative sul territorio italiano e dei profili disponibili a emigrare, ma questa parte è prevedibilmente rimasta di complicata attuazione. Il decreto flussi è quindi risultato essenzialmente un modo per chiudere le porte del paese al sorgere di sentimenti anti-migratori.
Migrazioni cicliche e “repats”
Le tipologie di lavoratori incluse nel decreto flussi sono variate negli anni, passando dagli iniziali 170mila ingressi agli 80mila del biennio 2007-2009. Da quel momento in poi le quote sono state utilizzate quasi esclusivamente per convertire permessi di soggiorno rilasciati per altri motivi (per lavoratori stagionali o altre categorie specifiche). Nel 2019 il tetto è di 30.850 ingressi ed è riservato a conversioni e stagionali, ovvero di fatto alla regolarizzazione di persone che sono già in Italia.
Il caso dei lavoratori stagionali è esemplare. L’inasprimento della legislazione ha reso sempre più rischioso il rientro nel paese di origine quando la stagione finisce, poiché non si può sapere a priori a chi saranno riservate le quote dell’anno seguente. I migranti quindi decidono di restare nel paese ospitante a fine contratto, entrando però in situazione di irregolarità e dovendo quindi cercare un impiego in nero o nella criminalità.
Lo stesso discorso vale per cicli migratori della durata di qualche anno. Le persone che vorrebbero trasferirsi temporaneamente in un altro paese sono disincentivate a rientrare anche a causa dell’alto costo sostenuto per il viaggio di andata (spesso anche pericoloso).
Altro esempio significativo sono i cosiddetti “repats”, cittadini africani emigrati all’estero o afrodiscendenti che negli ultimi anni scelgono sempre più spesso di rientrare nel continente. Il Ghana, ad esempio, ha dichiarato il 2019 “l’anno del ritorno” e intrapreso un’apposita campagna comunicativa e politica per convincere gli afrodiscendenti a trasferirsi nel paese.
In sintesi, l’idea che i migranti non vogliano mai più rientrare nel paese natale non trova riscontro empirico, dato che la scelta di restare a tempo indeterminato, secondo la letteratura, è spesso più influenzata da incentivi burocratico-amministrativi distorti – come quelli del decreto flussi – che da volontà personali.
Un quadro istituzionale che rende la partenza sempre più costosa, e la permanenza imprevedibile e pericolosa, disincentiva fortemente il ritorno. L’Europa, oltre a essere meta meno ambita di altre, spesso non è desiderata come destinazione definitiva, bensì come passaggio di un percorso migratorio circolare che si chiude nel paese di origine.
Il quadro istituzionale
Per rendere possibile e vantaggiosa la migrazione circolare è, quindi, necessario costruire un diverso sistema di incentivi e abbandonare il trend di inasprimento legislativo in materia. Un primo strumento da reintrodurre e potenziare è sicuramente quello dei visti per la ricerca di lavoro, calati notevolmente a partire dagli anni 2000 e praticamente azzerati negli ultimi anni per chi viene dall’Africa sub-sahariana.
Questo permetterebbe un travaso dei migranti per aspirazione dai canali d’ingresso irregolari o di carattere umanitario verso ingressi legali che faciliterebbero l’inserimento nel mondo del lavoro (in Italia i richiedenti asilo non possono lavorare per i primi 2 anni), una maggior sicurezza del viaggio, il rispetto della dignità delle persone che scelgono di migrare e una migliore gestione dei flussi.
Un provvedimento complementare sarebbe la reintroduzione della figura dello sponsor per i visti lavorativi (cancellato con la legge Bossi-Fini del 2002 e riproposto in un disegno di legge nell’ottobre 2017). La sponsorizzazione permetteva di arrivare legalmente grazie alle garanzie economiche offerte da parenti, amici o conoscenti già residenti sul territorio nazionale, riducendo i costi per la collettività e favorendo l’integrazione dei nuovi arrivati nel tessuto lavorativo e sociale nazionale, senza dover passare per centri di accoglienza e integrazione creati ad hoc.
In vari studi, si trovano esempi del ruolo decisivo svolto dalle diaspore (ovvero le comunità emigrate o discendenti che mantengono legami attivi con i paesi di origine), sia dal punto di vista economico che psico-sociale, nel determinare un positivo inserimento nel paese di arrivo. Questo aspetto acquista ulteriore rilievo per migranti poco qualificati come i lavoratori dei flussi recenti provenienti dall’Africa che vengono impiegati principalmente in lavori manuali e non specializzati.
Un altro elemento (anch’esso eliminato con la Bossi-Fini e riproposto nel 2017) riguarda la trasferibilità dei contributi pensionistici versati dai lavoratori stranieri. Secondo le norme vigenti questi contributi vengono persi, a meno che non si raggiunga la soglia contributiva per ottenere una pensione. Così facendo, da una parte si incentivano i lavoratori regolari a rimanere il più a lungo possibile, dall’altra si crea invece un incentivo al lavoro nero per chi non voglia rimanere così a lungo.
La proposta attualmente in discussione in commissione alla Camera prevede piuttosto di trattare i contributi come “risparmio forzato”, che viene riconsegnato al lavoratore nel momento in cui decide di tornare al paese di origine. Negli stati di origine questo può essere un contributo positivo allo sviluppo economico, grazie ai repats che tornano con capitali (piccoli o grandi che siano) da investire. Per il paese ospitante si genera, invece, un incentivo al lavoro regolare, sebbene ciò comporti una perdita dei contributi e un ridimensionamento dell’aspettativa di affidare la sostenibilità del sistema pensionistico sui contributi versati dagli immigrati.
Un sistema di incentivi consapevole invece di criminalizzare
Molti sono gli ambiti in cui il legislatore ha capito, in Italia e altrove, che interventi volti unicamente a criminalizzare un determinato fenomeno portano più probabilmente alla nascita di un mercato illegale che all’effettiva gestione dello stesso. Intervenire con un sistema di incentivi per accompagnare e indirizzare il fenomeno migratorio implicherebbe, invece, la presa di coscienza che l’aspirazione a opportunità migliori è condivisa a tutte le latitudini del pianeta ed è forte al punto di non poter essere fermata con un semplice divieto di transito.
Per gestire il fenomeno migratorio negli interessi dei paesi sia di partenza che di arrivo serve saper identificare il bisogno alla base del fenomeno. Nel caso delle migrazioni africane verso l’Europa, il bisogno principale nel 2019 e per qualche anno a seguire è la ricerca di migliori opportunità lavorative, e ogni impianto legislativo che voglia gestire sistematicamente e con lungimiranza tale fenomeno non può non tenerne conto.