Articolo scritto per Business Insider
Il negoziato che ha portato Ursula von der Leyen sulla poltrona più desiderata di Bruxelles, è parte di un grand bargain che ha coinvolto i vertici delle principali istituzioni dell’Unione, ma è stato anche fortemente influenzato dallo scontro sulla tutela dello stato di diritto nei paesi membri. L’olandese Frans Timmermans, che appariva favorito, si è visto infatti sbarrare la strada in particolare dai paesi del gruppo Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia). E questo non è un caso.
I leader dell’Europa dell’est, pur di fermare l’ascesa di Timmermans, hanno preferito appoggiare una candidata tedesca nota per le sue posizioni fortemente europeiste. I quattro paesi hanno anche sacrificato il loro principio cardine, l’equilibrio geografico: l’attuale pacchetto di nomine non contiene infatti alcun esponente proveniente dall’Europa orientale.
Questa scelta, apparentemente sorprendente, è dovuta principalmente al ruolo giocato da Timmermans nello scontro tra Polonia, Ungheria e istituzioni europee sulla tutela dello stato di diritto. A partire dal 2010 infatti i governi di questi due paesi hanno avviato numerose riforme del sistema politico e giudiziario, con l’obiettivo di accentrare il potere nelle mani dell’esecutivo. Hanno provocato particolare scalpore i provvedimenti, promossi prima in Ungheria e poi in Polonia, volti a modificare la composizione delle corti supreme tramite pre-pensionamenti forzati dei giudici.
Gli strumenti a disposizione delle istituzioni Ue
Il Trattato sull’Unione europea e la Carta dei diritti fondamentali richiamano lo stato di diritto tra i valori fondanti dell’Unione: questo principio garantisce che tutti i pubblici poteri agiscano entro i limiti fissati dalla legge, rispettando i valori della democrazia e i diritti fondamentali, e sotto il controllo di giudici indipendenti e imparziali.
Semplificando, la Commissione dispone di due principali strumenti per affrontare le minacce a questo principio fondamentale nel caso in cui le raccomandazioni restino inascoltate: in primo luogo, per specifiche questioni legate al diritto europeo, il collegio dei commissari può attivare procedure di infrazione e appellarsi alla Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue). Il trattato di Amsterdam ha poi istituito un ulteriore meccanismo, più generale: il Parlamento europeo, la Commissione o gli Stati membri possono attivare il noto articolo 7 del trattato, che prevede una fase preventiva e un meccanismo sanzionatorio. Con una maggioranza di 4/5 e l’approvazione del Parlamento, il Consiglio europeo può stabilire l’esistenza di un “un evidente rischio di violazione grave” dello stato di diritto in un paese membro (fase preventiva). Nei casi più gravi, il Consiglio europeo può determinare (con decisione questa volta unanime, escluso lo stato membro in questione) l’esistenza di una “grave e persistente violazione” e può imporre, a maggioranza qualificata, sanzioni che possono arrivare alla sospensione dei diritti di voto nel Consiglio.
Dopo numerose risoluzioni di condanna cadute nel vuoto, il 12 settembre 2018 il Parlamento europeo ha votato per l’attivazione dell’articolo 7 per l’Ungheria di Viktor Orban. Il Parlamento europeo ha chiesto al Consiglio di finalizzare la procedura preventiva ma, sotto la presidenza di turno di Austria e Romania nessuna audizione formale si è tenuta (fonti giornalistiche suggeriscono che la presidenza finlandese, insediata ad inizio luglio, abbia intenzione di correggere questa inerzia). Nel caso della Polonia, la fase preventiva dell’articolo 7 è stata attivata dalla Commissione, a dicembre 2017, ma si è poi di fatto arenata.
Parallelamente, l’esecutivo Ue ha avviato anche molteplici procedure di infrazione (appellandosi alla Cgue), ad esempio contro le riforme dei tribunali ordinari e della Corte suprema in Polonia.
Astraendo dai numerosi dettagli procedurali, l’aspetto cruciale è la necessità dell’unanimità degli altri stati membri per imporre sanzioni. Questo requisito permette a Polonia e Ungheria di porre il veto l’una sulle sanzioni verso l’altra, bloccando di fatto l’utilizzo di quella che la Commissione stessa ha definito “opzione nucleare”. Ciò non significa che le istituzioni europee siano al momento completamente inermi: numerosi appelli formalizzati dalla Commissione sono stati poi accolti dalla Cgue, obbligando Polonia e Ungheria a modificare alcune delle riforme più controverse, senza il bisogno dell’articolo 7.
Per esempio, il 24 giugno scorso, una nuova sentenza della Cgue ha bocciato la riduzione dell’età pensionabile dei giudici della Corte Suprema polacca e la facoltà per il Presidente della Repubblica di rifiutare la continuazione del loro mandato. Questi importanti precedenti giurisprudenziali, e alcune recenti proposte legislative, aprono la strada ad interventi di tutela più incisivi da parte delle istituzioni europee.
I prossimi passi
Ursula von der Leyen è stata sostenuta dai paesi di Visegrád nel Consiglio europeo ma è stata confermata da un Parlamento che è tutt’ora (in ampia maggioranza) determinato a sanzionare le violazioni dello stato di diritto. Nel suo discorso di fronte al Parlamento, la nuova presidente si è dimostrata determinata e ha dichiarato il suo pieno sostengo a un nuovo meccanismo europeo di tutela, da aggiungersi agli attuali strumenti. Von der Leyen, con una certa dose di prudenza, non ha precisato l’esatta natura di questo nuovo meccanismo.
A gennaio, il Parlamento europeo ha approvato uno primo progetto della Commissione per legare l’erogazione di fondi europei al rispetto dello stato di diritto, ma la proposta si è bloccata per la riluttanza dei paesi membri a dare il via libera. Il disegno di legge prevede che la Commissione europea possa (con l’approvazione di una maggioranza qualificata del Consiglio) sospendere, ridurre o addirittura annullare i pagamenti di fondi europei ai paesi trasgressori.
Essendo tra i principali percettori netti di fondi, Polonia e Ungheria vedono con grande timore questi vincoli: per il periodo 2014-2020, la Polonia è assegnataria di 82 miliardi di euro in fondi di coesione e 32 miliardi di fondi agricoli, mentre all’Ungheria sono destinati rispettivamente 23 miliardi e 12 miliardi. Il 17 luglio, la Commissione uscente ha poi presentato un pacchetto di misure aggiuntive per la tutela dello stato di diritto, includendo addizionali forme di monitoraggio e incontri informativi con la società civile.
Nei prossimi mesi, le negoziazioni per l’approvazione del quadro finanziario pluriennale 2021-2027 entreranno nel vivo. Una vigilanza più costante, legittimata anche dalle recenti sentenze della Cgue, è certamente un passo avanti, ma solamente l’inserimento di un vincolo formale sui futuri fondi europei alzerebbe realmente la pressione sui paesi trasgressori. Sarebbe poi cruciale che le misure di sospensione e blocco delle erogazioni possano essere esercitate con una maggioranza qualificata nel Consiglio. Legare i fondi europei al rispetto dello stato di diritto è certamente complesso: oltre alle complicazioni di natura legale, si corre il rischio di inasprire ulteriormente il conflitto est-ovest ed inquinare gli imminenti negoziati. Tuttavia, i fondi europei sono un potente strumento di incentivo ed un passo in questa direzione sarebbe certamente un segnale decisivo della statura politica e dell’indipendenza della nuova leadership europea. Una nuova forma di condizionalità era stata già inserita (ma mai applicata) nel quadro pluriennale 2014-2020, per le violazioni delle più note regole legate al disavanzo e agli squilibri macroeconomici.
Affinché l’Ue si configuri come un compiuto “spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne”, e per il pieno funzionamento del nostro mercato unico, è prioritario che i cittadini europei possano avere piena fiducia nell’indipendenza dei sistemi giuridici di tutti gli Stati membri.