Articolo pubblicato su Econopoly – Il Sole24ORE
La fuga di cervelli e i tentativi (discutibili) di rimpatriare i talenti
14 miliardi di euro all’anno. Questo è il costo della cosiddetta fuga dei cervelli dal nostro paese secondo le stime citate dal ministro dell’economia Giovanni Tria. Ecco il vero deficit da azzerare per il futuro del nostro paese. Nonostante il nome un po’ caricaturale del fenomeno, la descrizione del profilo di chi parte è sicuramente efficace. Quando ci riferiamo ai cervelli in fuga pensiamo infatti ai giovani in possesso di almeno un titolo di laurea triennale. Nel 2017 infatti sono emigrati circa 115mila italiani e di questi più della metà (per la precisione il 52,6%) è in possesso di un titolo di studio medio-alto: si tratta di circa 33 mila diplomati e 28 mila laureati secondo l’Istat. Come abbiamo scritto su Lavoce.info, l’emigrazione di giovani laureati rappresenta indubbiamente una perdita per il nostro paese: trattandosi di capitale umano formato in Italia, le risorse pubbliche investite per l’istruzione di questi individui non vanno a contribuire al nostro sistema produttivo.
Negli anni passati i governi italiani hanno adottato diverse misure per far fronte al fenomeno emigratorio, principalmente concedendo sgravi fiscali ai laureati espatriati che fanno ritorno in Italia. Anche il governo gialloverde ha continuato sulla stessa strada. Rispetto al regime precedente, il decreto “Crescita” ha incrementato l’entità degli sgravi fiscali: per i lavoratori rimpatriati l’abbattimento dell’imponibile passa dal 50% al 70% mentre se la residenza viene trasferita in una delle regioni del Mezzogiorno l’agevolazione arriva al 90%. Inoltre, aumenta anche la durata del beneficio che in presenza di particolari condizioni (ad esempio per chi ha figli e per chi acquista un’abitazione di proprietà) può arrivare fino a 13 anni.
Sebbene l’adozione di un regime di agevolazioni fiscali sia una misura di facile attuazione, questa non sembra aver contribuito significativamente a fermare l’emorragia di talenti degli ultimi anni. Secondo i dati Istat, tra il 2013 e il 2017 il numero di laureati espatriati è aumentato del 41,8%, mentre i rimpatri sono rimasti pressoché costanti. Di conseguenza, il saldo migratorio con l’estero è peggiorato negli anni. Per capire quale sia l’efficacia di questo tipo di politica, inoltre, non basta focalizzarsi sulla bilancia di cervelli, ma bisogna considerare che tra gli emigrati vi sono tre categorie di persone: quelli che ritorneranno indipendentemente dalla presenza di un beneficio fiscale, quelli che non tornerebbero anche in presenza di uno sconto sulle tasse e infine quelli che scelgono di fare ritorno proprio per via delle agevolazioni. Gli sgravi fiscali sono da considerarsi una misura efficace solo se quest’ultima categoria di persone è abbastanza numerosa rispetto alla prima. Infatti, per quegli individui che sarebbero rientrati in ogni caso lo sgravio fiscale costituisce un regalo, che per il bilancio pubblico significa minori entrate senza aver influito concretamente sulla bilancia dei cervelli. Se invece questi ultimi sono relativamente pochi rispetto a quelli che ritornano grazie all’incentivo, allora i costi di sostenere questi sconti saranno superati dalle maggiori entrate che si ottengono grazie al loro ritorno in Italia.
Inoltre, un sistema di incentivi fiscali per chi ha lavorato o studiato all’estero solleva una questione di equità, poiché coloro che lasciano il paese provengono tipicamente da un background economico più avvantaggiato. Il report di Tortuga e Algebris sulla fuga dei cervelli lo conferma: dai dati dell’indagine Istat sui laureati emerge che chi risiede all’estero ha una maggiore probabilità di avere entrambi i genitori con un titolo di laurea rispetto a chi resta. Dunque, sono spesso i figli delle persone più istruite e molto probabilmente più benestanti a godere degli sgravi fiscali. Si rivela quindi una misura regressiva, oltre che scarsamente efficace.
Attirare e trattenere anche cervelli stranieri
Riportare in patria i cervelli emigrati non deve essere, però, l’unico obiettivo dei decisori politici: se riuscissimo ad avere un bilancio in pari attraendo lo stesso numero di giovani cervelli stranieri, il problema della fuga di talenti sarebbe probabilmente meno rilevante.
Per riuscirci è necessario partire da un sistema di istruzione terziaria che sia adatto ad accogliere gli studenti internazionali. Poiché gli studenti che trascorrono un periodo di formazione all’estero sono più inclini a perseguire una carriera internazionale, aumentare il numero di studenti stranieri che frequentano un corso di studi in Italia può essere un primo passo perché poi restino a lavorare in Italia. E non si può dire che non siano stati fatti passi in avanti in questo senso: tra il 2013 e il 2017 la percentuale di studenti stranieri iscritti a un corso di laurea in Italia è aumentata di quasi il 20%, arrivando al 4,6% degli iscritti nell’anno accademico 2016/17 (dati del Miur). La crescita del numero di stranieri iscritti non dovrebbe destare sorprese: il criterio dell’attrattività internazionale, ovvero la “percentuale di studenti iscritti al primo anno del corso di laurea e laurea magistrale che hanno conseguito il titolo di studio all’estero” (secondo il decreto ministeriale 6/2019), fa parte dei criteri di valutazione periodica istituiti dall’Anvur che influisce sull’allocazione dei fondi alle università. Tra questi criteri, tuttavia, nulla è invece previsto per quel che riguarda la composizione del personale docente.
Come mostrato nella figura 1 la percentuale di docenti e ricercatori stranieri all’interno delle università italiane è diminuita sensibilmente tra il 2013 e il 2017, passando dal 9% ad appena il 3,5%. Sembra difficile che il sistema universitario italiano possa attirare studenti stranieri senza un corpo docente altrettanto internazionale. Per questo motivo, si potrebbe estendere anche a professori e ricercatori il criterio di attrattività internazionale già previsto per quanto riguarda gli studenti.
Stabilire, tra i criteri Anvur, un target-obiettivo (per esempio, aspirare ad avere il 10% dei professori e ricercatori stranieri) o più semplicemente assegnare un punteggio relativo alla percentuale di docenti internazionali potrebbe costituire un primo passo per riequilibrare la bilancia dei cervelli. I professori e i ricercatori stranieri hanno infatti spesso un network con il proprio paese di origine che può rivelarsi cruciale per attrarre gli studenti stranieri. Inoltre, un corpo docente più internazionale permetterebbe di completare l’offerta formativa, ad esempio grazie ai più frequenti corsi in lingua inglese.
Incentivare l’iscrizione di studenti stranieri nelle università italiane, anche facendo leva sull’assunzione di docenti e ricercatori stranieri, può costituire un primo importante passo per riequilibrare la bilancia dei cervelli. Tuttavia, per non vanificare gli sforzi, tale strategia dovrebbe essere accompagnata da altre due misure volte a evitare che gli studenti provenienti dall’estero lascino il paese al termine del corso di studi.
La prima è l’introduzione di un programma di visti di lavoro per studenti extracomunitari. Infatti, molti paesi con tassi di internazionalizzazione relativamente alti tendono a perdere un’alta percentuale di studenti al termine degli studi. Emblematici sono la Danimarca, che perde il 40% dei laureati stranieri, e gli Stati Uniti, che perdono la maggior parte dei talenti che formano anche a causa di politiche restrittive sui visti per lavoratori altamente qualificati (H-1b). Questi esempi suggeriscono che, senza un quadro legale che consenta agli studenti stranieri di poter lavorare in Italia al termine degli studi, si rischia di aggravare ancor più la bilancia dei talenti.
Una seconda misura potrebbe essere l’estensione degli sgravi fiscali per il rientro dei cervelli ai laureati stranieri che decidono di rimanere in Italia dopo gli studi, così da fornire un incentivo perché restino in Italia anziché tornare nel paese d’origine.
Per concludere
Il fenomeno migratorio non si può fermare o ostacolare, soprattutto in una realtà dove l’internazionalizzazione degli studi e delle carriere rappresenta un valore aggiunto per studenti e lavoratori, sia dal punto di vista professionale che da quello personale. Bisogna saper dunque rispondere al brain drain con misure efficaci: se da un lato è auspicabile incentivare il ritorno delle competenze acquisite dagli italiani all’estero, dall’altro è ancora più importante attrarre cervelli stranieri nel nostro territorio, attraverso l’internazionalizzazione dei poli universitari e facilitando la loro integrazione nel mondo lavorativo italiano. Vaste programme.
Co-autore del post è Giuseppe Ippedico, studente di dottorato in economia all’Università della California, Davis. Nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economic and Social Sciences presso l’Università Bocconi. Per il think tank Tortuga – tramite il quale pubblica questo contributo – si interessa di temi legati alle migrazioni e all’economia del lavoro.