Articolo scritto per Business Insider
Uno dei dossier più caldi che arriverà sul tavolo del nuovo governo giallorosso resta quello dell’immigrazione. Giuseppe Conte ha ribadito il suo impegno nel sollecitare una soluzione europea. Tuttavia, anche l’Italia da sola potrebbe già cominciare a fare qualcosa a livello nazionale per migliorare la propria situazione.
Ad oggi il nostro paese affronta il fenomeno migratorio con due strumenti principali:
- le politiche migratorie e
- il sistema di accoglienza.
Sulle prime, la politica italiana ha spesso dato risposte emergenziali per regolamentare i flussi che hanno interessato il nostro paese, e ancora oggi manca una riforma organica che inquadri un fenomeno in modo differente da come è stato fatto a fine anni ‘90. Allo stesso tempo anche il sistema di accoglienza, di carattere emergenziale, non è adeguato a fronteggiare un fenomeno che è diventato strutturale.
Le politiche migratorie
L’Italia ha dovuto fare i conti con cambiamenti profondi per quanto riguarda il fenomeno migratorio: da paese di emigranti, dagli anni ’60-‘70 siamo diventati anche meta di immigrazione. A partire dalla legge Martelli (1990), lo stato italiano identificò come principale strumento di controllo la programmazione quantitativa dei flussi in entrata, coadiuvato da misure per scoraggiare l’immigrazione irregolare e favorire l’integrazione, facendo spesso ricorso a sanatorie per regolarizzare gli stranieri senza un valido permesso di soggiorno. Questi tre principi fondamentali vennero consolidati nel testo unico, introdotto nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano. Esso prevede che la gestione dei flussi sia regolata da quote programmatiche, stabilite ogni anno dal decreto flussi: dei limiti di tale strumento abbiamo scritto in un precedente articolo su Huffington Post.
Per quanto riguarda il contrasto all’immigrazione irregolare, la materia è stata pesantemente condizionata da due interventi legislativi: nel 2002, la legge Bossi-Fini decretò che può entrare in Italia solo chi è già in possesso di un contratto di lavoro, mentre nel 2008 venne introdotto il reato di immigrazione clandestina. Come salta all’occhio nel primo grafico, l’interazione fra la diminuzione delle quote di lavoratori non comunitari ammessi ogni anno, l’aumento degli sbarchi e l’inasprimento legislativo sembra aver prodotto un risultato ben preciso: l’aumento dei richiedenti asilo. Come abbiamo spiegato su La Stampa, nel momento in cui i canali legali per emigrare sono bloccati e si deve tentare la via illegale, l’unico modo per non incorrere in sanzioni penali all’arrivo è quello di presentare richiesta d’asilo.
Il sistema di accoglienza
Appena sbarcati, i migranti vengono inseriti nel sistema di accoglienza attraverso il quale possono presentare domanda d’asilo. Il “decreto sicurezza” approvato a fine 2018 è intervenuto a modificare alcuni aspetti di questo processo. Per quanto riguarda la prima accoglienza (primo soccorso, identificazione e avviamento della procedura per richiedere l’asilo), il decreto ha aumentato sia il tempo massimo di permanenza nei centri di permanenza e rimpatrio a 190 giorni, sia i fondi per i rimpatri. Il decreto proposto da Matteo Salvini è intervenuto eliminando la protezione più diffusa, quella per motivi umanitari che garantiva l’approvazione del 20% circa delle richieste, sostituendola con protezioni più specifiche e limitate. Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi, ha stimato che entro il 2020 circa 140mila migranti perderanno il permesso di soggiorno a causa di questo intervento, ingrossando le fila degli irregolari.
Il decreto non ha dato risposta, ma anzi ha alimentato ulteriormente due cortocircuiti del sistema. Il grafico seguente mostra il numero spropositato di migranti che trovano collocazione nella prima accoglienza, che dovrebbe essere invece solo transitoria e ricoprire il ruolo di smistamento dei migranti nella seconda accoglienza, dove inizia il vero percorso di integrazione.
Fino all’introduzione del decreto, la seconda accoglienza era realizzata dalla rete SPRAR, un sistema di accoglienza integrata diffusa, istituito nel 2002. La partecipazione al programma era però su base volontaria e i comuni partecipanti erano solo il 12,5%. Vi era quindi già un problema di pochi posti disponibili, che nel 2015 aveva portato all’introduzione dei Cas (Centri di accoglienza straordinaria), strutture che non offrono possibilità di integrazione reale. Il decreto ha peggiorato ulteriormente la situazione, come abbiamo scritto su Business Insider, diminuendo i fondi per lo SPRAR – trasformato in SIPROIMI – e restringendo l’accesso al programma di integrazione solo a chi ha già ottenuto protezione internazionale o rientra nella categoria dei minori non accompagnati, riducendo da 37mila a 10mila il numero delle persone coinvolte. La rete SPRAR era ritenuta una pratica d’eccellenza a livello europeo che forniva un servizio essenziale: l’importanza dell’integrazione, infatti, risiede non solo in motivi economici e di lavoro, ma anche in motivi culturali e di sicurezza. Infine, il decreto non è invece intervenuto per alleggerire il lavoro delle commissioni, che impiegano circa 18 mesi per dare una risposta alle richieste di protezione, allungando così il tempo di permanenza e aumentando il numero di persone ferme nella prima accoglienza.
Cosa si può fare?
Il nuovo governo potrebbe, per prima cosa, invertire subito la rotta eliminando le misure più controverse del decreto.
Ma potrebbe anche fare molto di più: ad esempio dotarsi di un sistema che faccia fronte al fenomeno migratorio in maniera strutturale e non emergenziale, trovando nuove strategie per diminuire il flusso di immigrati irregolari e adoperandosi per garantire un percorso di integrazione a chi ne ha diritto.
Per quanto riguarda il primo punto, porti chiusi e collaborare con la guardia costiera libica non si sono dimostrate valide soluzioni; al contrario, abbiamo già scritto della necessità di riaprire le vie legali per le persone di origine africana che intendono migrare in Europa per lavorare, di istituire corridoi umanitari per chi si qualifica come rifugiato e rinforzare i rimpatri assistiti per gli altri ed è bloccato in paesi di transito come la Libia.
È necessario inoltre reintrodurre il visto per ricerca di lavoro e, più in generale, misure per meglio gestire le migrazioni per aspirazione. La depenalizzazione è cruciale per disinnescare l’uso improprio della richiesta d’asilo: diminuire l’immigrazione irregolare ha un effetto diretto anche sull’integrazione. Prima di tutto, si riduce il numero di persone inserite nel sistema di accoglienza che domandano asilo, velocizzando il lavoro delle commissioni e alleggerendo la prima accoglienza. In secondo luogo, uno studio dell’Ispi e del Cesvi ha stimato che la diminuzione degli sbarchi nel 2017 ha portato a un risparmio medio nella spesa pubblica nel primo anno di 994 milioni, che è diventato di 1,8 miliardi negli anni successivi.
Queste risorse liberate possono essere reinvestite per incentivare e potenziare il sistema di seconda accoglienza e quindi l’integrazione. Il mancato inserimento nella società italiana genera costi diretti in termini di disoccupazione, sanità, povertà, emarginazione e criminalità. Al contrario, considerare l’integrazione come un investimento e non un costo darebbe inizio, come già possiamo osservare in alcune realtà italiane, a un circuito virtuoso di cui beneficerebbero tutti.
Co-autrice dell’articolo è Giulia Gitti. Laureata in economia e scienze sociali presso l’università Bocconi, attualmente è dottoranda a Brown University. Per il think thank Tortuga – tramite il quale pubblica questo contributo – si occupa di migrazioni e tecnologia nel mercato del lavoro.