Articolo pubblicato su Linkiesta
Per garantire la sostenibilità futura del Servizio sanitario nazionale occorre aumentare il numero di borse di specializzazione, eliminando l’imbuto formativo che si è creato. Il decreto Cura Italia ha rimosso l’esame di stato di abilitazione, ma non basta.
Quando le difficoltà partono dalle assunzioni
Questo è il terzo di una serie di articoli scritti dal think tank Tortuga in collaborazione con i data scientist di Buildnn, con l’obiettivo di analizzare, con numeri e parole chiare, la diffusione del Covid-19 e la gestione del Sistema Sanitario Nazionale. Tutte le rielaborazioni e i dati sono disponibili su una piattaforma Open Source creata.
Come viene assunto un medico in Italia
Molte delle problematiche legate alla gestione dei medici in Italia dipendono dal percorso di formazione e successiva assunzione. Diventare medico richiede un percorso temporalmente lungo e che necessita di svariate figure: Università, Stato, Regioni e Aziende Sanitarie. Un quadro alquanto complicato. Vediamo perché.
Il primo ostacolo è il famigerato test di ammissione, dove a fronte di circa 60mila domande i posti disponibili sono solo 10mila. Il test viene condotto a livello nazionale e una volta selezionati è possibile frequentare il corso di laurea magistrale per una durata di 6 anni presso una delle Università italiane (pubbliche, il test per le private è differente). Fino a qualche settimana fa, occorreva poi ottenere l’esame di stato di abilitazione alla professione superando una prova scritta e un tirocinio pratico della durata di 3 mesi. Questo passaggio è stato rimosso dal decreto Cura Italia, che ha reso abilitante il solo possesso della laurea magistrale. Il percorso di formazione non è ancora finito, in quanto con l’iscrizione all’albo le possibilità lavorative sono ancora ristrette, come la guardia medica o l’assistenza a eventi sportivi. Occorre specializzarsi, vincendo una borsa di studio (prevalentemente nazionali, poche sono le regionali) per l’accesso alla Scuola di Specializzazione, un percorso della durata tra i 3 e 5 anni che permette di abilitarsi in un determinato campo, percependo intanto un reddito. Una volta specializzato, quali sono le opzioni lavorative per il medico? Oltre alla libera professione e al settore privato, due sono le vie maestre per l’assunzione nel SSN: l’avviso pubblico di selezione e il concorso pubblico. Il primo si avvale di una procedura diretta e permette di accedere a incarichi temporanei, il secondo invece è diretto all’inserimento di personale nella Pubblica Amministrazione con contratto indeterminato. La gestione di questi strumenti spetta alle regioni e alle Aziende Sanitarie Locali (Asl), in base al budget di spesa regionale, le necessità cliniche e la programmazione del personale.
Emergono subito le due criticità principali, ovvero l’alto numero di snodi nel percorso di formazione e la responsabilità di molti soggetti differenti. Ciò rende la catena di formazione più lunga e complessa. Problemi che si manifestano compiutamente nell’“imbuto formativo” formatosi nel passaggio tra l’esame di abilitazione e la scuola di specializzazione. Le previsioni regionali sul numero necessario di specialisti relative agli ultimi 10 anni si sono rivelate errate, stanziando quindi meno borse del necessario e creando un bacino grigio di circa 7 mila individui bloccati tra le due fasi (fig.1).
Differenze regionali nelle assunzioni
Si riscontrano complicazioni anche nella programmazione del personale tra stato e regioni. A seguito della riforma del titolo V della Costituzione nel 2001, la tutela della salute è una materia di competenza concorrente fra stato e regioni, ma il primo mantiene un ruolo chiave nella programmazione sanitaria. Infatti, lo stato redige il Piano sanitario nazionale, che ha durata triennale e indica i livelli essenziali e uniformi di assistenza (LEA) che dovranno erogare le regioni e, soprattutto, i fondi disponibili per ogni anno di validità del piano. Le regioni presentano, almeno sei mesi prima dell’approvazione del piano nazionale, il proprio piano sanitario, in cui esprimono i fabbisogni di risorse, incluse quelle per il personale, specificando le assunzioni che ritengono necessarie divise per discipline e strutture, il metodo che hanno utilizzato per tali previsioni e il loro impatto economico. Il Ministero della Salute confronta le richieste di assunzione fatte dalle regioni con il loro fabbisogno teorico di personale, calcolato con degli appositi criteri tecnici.
Poiché le risorse complessive vengono comunque allocate dallo stato centrale, il grado di autonomia delle regioni nella gestione del personale è in realtà limitato. Inoltre, a partire dal 2009, si è assistito a un consistente processo di razionalizzazione della spesa per il personale pubblico, che non ha risparmiato il SSN: la legge di bilancio del 2010 ha fissato come tetto massimo di spesa per il pubblico impiego il livello del 2004 diminuito dell’1,4%. Il riflesso sul SSN è evidente: dal 2009 al 2017, il personale sanitario è passato da 693.600 unità a 647.048, un calo del 6,7% (fonte: MEF).
Dunque, tutte le regioni sono state uniformemente soggette ai tagli generalizzati alla spesa per dipendenti del SSN, ma la situazione è particolarmente drastica per quelle che hanno siglato con il governo il cosiddetto Piano di rientro. Quest’ultimo è un regime rigido volto alla riduzione del disavanzo di spesa sanitaria regionale con interventi massici e mirati di tagli di spesa, e attualmente coinvolge Calabria, Molise, Campania, Lazio, Sicilia, Puglia e Abruzzo, di cui le prime quattro sono anche sottoposte a commissariamento. Questi strumenti si sono dimostrati sicuramente efficaci nel raggiungimento dell’equilibrio economico-finanziario, ma hanno avuto effetti pesanti sul personale: il commissariamento, ad esempio, ha imposto il blocco automatico del turnover, in un contesto in cui il livello regionale, si trovava già in condizione di criticità in termini di numerosità e competenze attese del personale (fonte: rapporto OASI 2019). Prendendo ad esempio il Piano di rientro della Regione Calabria per il periodo 2010-2013, fu previsto un blocco del turnover del personale strettamente sanitario pari al 50%. La figura 2 mostra una netta disparità fra la dotazione di personale delle regioni sottoposte a piano di rientro e quelle non sottoposte: se le prime hanno sperimentato, nel periodo 2014-2016, una marcata riduzione del personale medico, si evidenziano però maggiori ingressi di personale sanitario. I piani di rientro mirano a riequilibrare il rapporto tra medici e infermieri.
Agire sui blocchi
Il quadro delineato mostra la complessità e la frammentarietà della pianificazione sanitaria italiana, tanto nella programmazione delle borse di studio, quanto nell’assunzione del personale medico. Il sistema prevede la concertazione di molti attori, con un approccio bottom-up che parte dalle singole ASL per arrivare fino al Ministero, passando per le Regioni. L’effetto di tale processo è stato un’eterogeneità fra i diversi sistemi regionali. Per garantire la sostenibilità futura del SSN occorre aumentare il numero di borse di specializzazione, eliminando l’imbuto formativo che si è creato. La rimozione dell’esame di stato di abilitazione è un primo giusto passo verso la semplificazione del sistema, ma occorre migliorare il dialogo tra gli attori della programmazione sanitaria per ottenere stime sul fabbisogno di medici più corrette in futuro.
Un ulteriore elemento di disparità regionale nella dotazione di personale è emerso con l’attuazione dei Piani di rientro. Il rapporto OASI 2019 evidenzia che la letteratura non esprime una valutazione unanime degli effetti dei Piani sulla qualità dei servizi sanitari. Tuttavia, anche laddove si osserva un miglioramento della performance delle Regioni sottoposte ai Piani, i gap rispetto alle Regioni migliori sono rimasti invariati (rapporto OASI 2019). Infine, i Piani si sono dimostrati adeguati in un’ottica di riduzione dei disavanzi, ma politiche quali il blocco del turnover risultano miopi e certamente contribuiscono ad aggravare il problema dell’anzianità del personale sanitario.
La complessità organizzativa del SSN ha evidenziato durante l’impatto del Covid-19 una carenza nella pronta reazione delle emergenze. Sono mancati meccanismi centralizzati per le assunzioni di medici e infermieri, costringendo il sistema a ripiegare in extremis sull’utilizzo sovrapposto di bandi nazionali, della protezione civile o delle singole regioni per l’assunzione di personale. Dato il carattere emergenziale e l’impellenza nel reperire le risorse umane, una procedura tramite un bando unico gestito dal Ministero, raccogliendo le richieste delle varie regioni, potrebbe portare a una comunicazione più efficiente su scala nazionale, la gestione di un’unica procedura con medesime tempistiche. Finita la crisi, la creazione di un protocollo per assunzioni in caso di emergenza sarà una priorità.