Articolo scritto per Business Insider Italia
(Questo articolo è stato scritto in smart working)
Fino alla metà del Settecento, secondo la Treccani, “il lavoro era un’attività individuale e artigianale, spesso domestica, che si svolgeva in tempi e con modalità non strettamente vincolanti”. Fu solo con la rivoluzione industriale che il luogo di lavoro divenne centralizzato nella città e nella fabbrica.
Secondo gli studiosi Messenger e Gschwind, a quest’onda che portò le persone dalle case di campagna alle fabbriche di città più recentemente corrisponderebbe una simile risacca, a rendere nuovamente la casa il luogo principe del lavoro. Questa risacca è stata rappresentata prima dal telelavoro e, più recentemente, dallo smart working o lavoro agile.
Dal 22 febbraio 2020 un numero crescente di italiani ha digitato su Google questi termini di ricerca. Complici il timore di nuovi contagi e le restrizioni sempre più stringenti agli spostamenti delle persone, infatti, imprese e lavoratori hanno deciso di ridurre o sospendere il tempo speso fisicamente in ufficio in favore del lavoro svolto a distanza. Ma di cosa si tratta?
Sebbene una definizione univoca sia impossibile, il termine smart working indica un modo di lavorare che comporta, secondo il libro Formazione in Rete, Teleworking e Inclusione Lavorativa, tre tipi di flessibilità:
- di luogo,
- di tempo
- e di organizzazione.
Chi pratica lo smart working, infatti, utilizza una serie di strumenti tecnologici e soluzioni organizzative e manageriali che permettono di lavorare dovunque, nell’orario e nel modo più congeniale al lavoratore. Il telelavoro, che possiamo considerare un po’ l’antenato dello smart-working, comporta invece lo spostamento del luogo del lavoro lontano dall’ufficio.
Secondo Boell, Cecez-Kecmanovic e Campbell lo smart working avrebbe il potenziale per mettere in crisi sia la divisione netta fra lavoro e vita privata che le forme novecentesche di controllo della produttività del lavoratore. Si tratta infatti di un fenomeno in espansione e ormai non più marginale.
Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, una delle fonti più autorevoli sull’argomento, in Italia oggi ci sono 570mila smart worker, in significativa crescita rispetto ai circa 480mila del 2018 e ai 400mila del 2017. Il 58% delle grandi imprese ha già introdotto iniziative concrete (anche se va ricordato che ad oggi il 16% delle pubbliche amministrazioni ha progetti strutturati di lavoro agile – nel 2018 era l’8% e nel 2017 il 5%).
Se alcuni studi riportano notevoli aumenti della produttività e del benessere dei lavoratori, altri osservano l’esatto contrario. Alcuni dimostrano benefici per l’ambiente, mentre altri aumenti dell’inquinamento. Se alcune aziende sperimentano con successo da anni metodi di lavoro agile, altre, come Yahoo! nel 2013, hanno deciso di interrompere i loro progetti di lavoro flessibile.
La più ovvia conseguenza della maggiore flessibilità dello smart working è la migliore conciliazione tra lavoro e vita personale. Secondo un rapporto Eurofound, la maggior parte degli smart workers hanno un miglior bilanciamento lavoro-vita privata e una maggiore qualità della vita familiare. Una maggiore flessibilità gioverebbe anche chi è più soggetto ad avere carriere discontinue. È il caso, ad esempio, delle donne che affrontano una o più gravidanze nel corso della loro carriera. Secondo l’Osservatorio di Smart Working, nel 22% dei casi le donne che lavorano al momento della gravidanza non lavorano più a due anni dalla nascita del figlio. Inoltre, secondo un recente studio di Angelici e Profeta, lo smart working aumenterebbe la partecipazione degli uomini nei lavori di casa e nella cura dei figli, contribuendo a una più equa divisione dei doveri familiari.
Un’altra categoria che beneficerebbe dalla flessibilità di luogo e di tempo è quella dei pendolari. In Italia attualmente, ogni mattina, 29 milioni di persone lasciano il proprio comune di residenza per recarsi al lavoro. Di queste, secondo un rapporto di Legambiente, solo 5,7 milioni utilizzano treni o metropolitane, con la rimanente parte che viaggia su gomma. Il tempo medio impiegato per andata e ritorno è di circa 72 minuti, che corrispondono a circa 33 giornate lavorative annue. Se i lavoratori potessero scegliere quando recarsi a lavoro si potrebbe ridurre la congestione del traffico nelle città e, di conseguenza, l’inquinamento da polveri sottili. Per l’individuo, quindi, meno tempo trascorso a bordo e in attesa dei mezzi.
Più flessibilità implica però più autonomia e un’eccessiva autonomia del lavoratore potrebbe significare riduzione della produttività e della qualità dell’output per mancanza di controllo. Occorre quindi essere cauti nel valutare, caso per caso, pro e contro di forme di smart working, senza però scadere nell’idea ingenua di poter stilare un preciso foglietto illustrativo dei rischi del lavoro agile valido per tutte le occasioni.
Un problema, ad esempio, che viene sollevato in uno studio di Bologna e Iudicone è quello dei rischi che conseguono a un’interconnessione costante con il lavoro attraverso i devices, la quale potrebbe essere causa della mancanza di una netta separazione fra la sfera lavorativa e quella del riposo. A tal proposito, è stato coniato il termine diritto alla disconnessione, riconosciuto nella legislazione francese anche per i contratti di lavoro tradizionale. Il termine si riferisce al diritto del lavoratore ad essere irreperibile o a non dover soddisfare richieste al di fuori dell’orario di lavoro attraverso strumenti informatici.
La varietà di mansioni che i lavoratori devono svolgere nel loro quotidiano e la loro diversa idoneità al lavoro agile sono in parte la causa dei risultati divergenti descritti sopra. Raccogliendo pareri ed esperienze di chi ha sperimentato il telelavoro, che ricordiamo avere in comune con lo smart working una flessibilità di luogo e orario di lavoro, dallo studio di Boell, Cecez-Kecmanovic e Campbell emerge come questa modalità non sia considerata positiva o negativa, ma venga apprezzata diversamente a seconda delle attività lavorative prese in considerazione. Ad esempio, le attività intellettuali di scrittura o elaborazione creativa, che richiedono un alto livello di concentrazione, possono essere meglio eseguite a casa o in generale in un posto diverso da un ufficio affollato e rumoroso. D’altro canto, per quanto riguarda le attività da svolgere in team, il telelavoro potrebbe peggiorare la qualità del confronto e dell’interazione con i propri colleghi, eliminando la possibilità di avere un loro feedback immediato.
Sebbene sia più corretto parlare di singole attività telelavorabili e non di intere professioni, lo smart working si rivolge a una platea limitata di lavoratori, ovvero ai cosiddetti knowledge workers. Il report pubblicato da Eurofound e ILO lo conferma: in Europa lo smart working è più comune tra professionisti, tecnici, manager e impiegati da ufficio. Molte delle loro mansioni possono essere eseguite a distanza grazie al supporto delle nuove tecnologie, e inoltre, godono di un livello di autonomia tale per cui possono lavorare senza la supervisione diretta del loro datore di lavoro.
Con l’emergenza COVID-19 il nostro paese si è trovato obbligato a dover sperimentare, forse in una quantità eccessiva e con tempistiche troppo strette, una forma di lavoro prima scarsamente utilizzata. Come abbiamo discusso in questo articolo, lo smart working è associato a benefici e costi e molti lavoratori italiani hanno potuto ora verificarli personalmente. Partiamo dalle loro esperienze e facciamo tesoro di quanto appreso per fare del lavoro agile un beneficio a disposizione di lavoratori, imprese e consumatori nei prossimi anni. Specialmente là dove l’innovazione dei metodi produttivi e gestionali è meno dinamica e potenzialmente più fruttuosa. Non torniamo indietro.
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