Articolo pubblicato per Econopoly – Il Sole24ORE
L’aggravarsi della situazione sanitaria, con il recente aumento dei contagi e dei ricoveri in terapia intensiva, ha riaperto nel paese la discussione riguardante un possibile lockdown delle attività economiche. Questa prospettiva induce osservatori e cittadini a interrogarsi su quale compromesso sia giusto adottare fra il rischio di una nuova diffusione della pandemia e le disastrose ricadute economiche di un nuovo stop delle attività produttive.
Le conseguenze della prima ondata
Il mercato del lavoro italiano ha subito gravi ripercussioni dopo la prima onda pandemica, con la perdita certificata di 656.000 posti di lavoro e un calo del tasso di occupazione di 1,9 punti percentuali, dal 59,4% del secondo trimestre del 2019 al 57,5% del secondo trimestre del 2020. La crisi economica dovuta all’emergenza sanitaria non ha avuto un impatto omogeneo fra diverse categorie di lavoratori, ma ha colpito maggiormente settori dell’economia che godono di scarsa protezione e i lavoratori più giovani, acuendo in questo modo iniquità che da anni caratterizzano il nostro mercato del lavoro. La Figura 1 mostra la variazione percentuale di occupati per macrosettore nell’ultimo anno.
Il numero totale di occupati in Italia è calato del 3,84%. Gran parte del calo degli occupati si concentra nel settore dei servizi (esclusa l’amministrazione pubblica), con un calo di circa il 6%. I settori dell’agricoltura e della manifattura risultano moderatamente colpiti, con cali percentuali di poco superiori all’1%, mentre la pubblica amministrazione pare non aver subito alcuna ricaduta occupazionale, con un calo di occupati dello 0,2%. È importante tenere a mente che questi dati riflettono il blocco dei licenziamenti indetto dal Governo a marzo, che riduce i flussi in uscita nei settori protetti, come ad esempio la manifattura. Da una prospettiva settoriale, il costo della crisi si è dunque riversato quasi completamente sul solo settore dei servizi, i più esposti a una misura di lockdown e meno protetti dai sindacati (a differenza della manifattura) o dalla sicurezza di un impiego pubblico (a differenza della Pa).
Facendo una scansione delle dinamiche avvenute nel mercato del lavoro italiano a livello anagrafico, possiamo notare come i più colpiti dalla crisi causata dal Covid-19 siano i giovani. Sebbene fra il 2014 e inizio 2020 nessuna fascia d’età avesse registrato incrementi occupazionali paragonabili a quelli dei lavoratori over 50, anche per i lavoratori più giovani si era osservato un progressivo miglioramento. La situazione generale cambia durante la prima ondata di Covid-19. Se per gli over 50 le condizioni restano sostanzialmente invariate, tutte le altre fasce d’età subiscono in soli quattro mesi una forte riduzione del tasso di occupazione, che elimina gran parte della crescita accumulata nei sei anni precedenti. Confrontando infatti i numeri di inizio 2014 con quelli dell’estate 2020, notiamo come complessivamente il tasso di occupazione sia aumentato di un solo punto percentuale per coloro tra i 18 e i 24 anni, sia rimasto invariato tra i 25 e i 34 e aumenti di 0,8 punti per la fascia 35-50, accentuando la frattura tra gli under e gli over 50.
Considerando un’ulteriore suddivisione per titolo di studio, possiamo notare come ottenere una laurea paghi a livello occupazionale sia per i giovani che si stanno inserendo nel mercato del lavoro che per i lavoratori tra i 35 e i 64 anni. Sebbene tra il 2019 e il 2020, a causa della crisi, il numero di occupati sia calato per ogni categoria, il calo è stato due volte e mezzo maggiore per i lavoratori under 34 senza una laurea e oltre 4 volte maggiore per i più anziani.
Il costo della crisi si è quindi riversato sul settore dei servizi e sui lavoratori più giovani e senza una laurea. Possiamo dunque chiederci: le ricadute settoriali e quelle anagrafiche della crisi sono legate fra di loro? Nel periodo precedente al lockdown, i lavoratori giovani non erano più concentrati nel macrosettore dei servizi rispetto ai lavoratori più anziani (fonte: Istat). Parte del puzzle può essere spiegato dal fatto che, anche all’interno del macrosettore dei servizi, gli anziani si concentrano maggiormente in settori più protetti. Un’ulteriore spiegazione risiede però nel fatto che i giovani rappresentino, in tutti i settori dell’economia, una categoria di lavoratori marginale. I lavoratori marginali sono tipicamente lavoratori con poca esperienza lavorativa e basso livello di scolarizzazione, che riescono a trovare lavoro durante le fasi di espansione dell’economia, ma lo perdono facilmente durante le fasi di contrazione. Questa crisi ripropone un antico dualismo fra lavoratori garantiti e non garantiti, i quali subiscono la gran parte delle ricadute economiche di uno stop delle attività economiche.
Le mosse del Governo: il boom della Cassa Integrazione
Le principali misure messe in atto dal Governo per contrastare gli effetti della crisi occupazionale sono state due: il già citato blocco dei licenziamenti e un ricorso senza precedenti alla Cassa Integrazione Guadagni. L’importanza della Cig in questa crisi è facilmente constatabile confrontando il numero di ore autorizzate a operai e impiegati nei primi nove mesi di quest’anno con quelli del 2010, anno in cui il l’utilizzo di questo strumento aveva raggiunto il suo picco storico.
Tre elementi distinguono chiaramente l’utilizzo della CIG nei due periodi: dimensioni, destinazione e continuità.
Per quanto riguarda le dimensioni, le ore autorizzate fino al mese di settembre 2020 equivalgono a 282 milioni di giornate lavorative (31 milioni ogni mese), oltre il doppio del totale di quelle autorizzate nell’intero 2010. Il balzo maggiore è avvenuto nel mese di aprile quando, con il lockdown, il 51 per cento delle imprese e il 40 per cento dei dipendenti del settore privato hanno usufruito della Cig-Covid-19.
In secondo luogo, i destinatari: la necessità di coprire imprese al di fuori dei classici settori di applicabilità – industria e edilizia – ha causato un’esplosione degli interventi in deroga alla normativa. Ciò si è riflesso in un aumento sostanziale della quota attribuita agli impiegati (23 per cento nel 2010 e 37 per cento nel 2020) e a settori appartenenti al terziario particolarmente colpiti, come i servizi di alloggio e ristorazione. Questi cambiamenti a livello settoriale hanno anche creato una nuova geografia della Cassa Integrazione, con un incremento sostanziale della frazione di ore autorizzate a favore di lavoratori e imprese al Centro-Sud, dal 26 al 33 per cento del totale.
Infine, va tenuta in considerazione la differente natura dello shock subito dall’economia Italiana nei due contesti. Il picco di utilizzo Cig del 2010 era dovuto a una situazione di crisi prolungata, originata nella crisi finanziaria del 2008, proseguita con la recessione e il collasso del commercio internazionale e continuata per l’Italia nel successivo quinquennio di crescita negativa o nulla: l’utilizzo della Cassa in quegli anni è spesso coinciso con situazioni di difficoltà per le imprese più deboli ed esposte al cambiamento strutturale che l’economia mondiale aveva intrapreso negli anni precedenti. La crisi dovuta al Covid-19 è stata più profonda ed immediata, causando il congelamento di interi settori dell’economia e coinvolgendo anche imprese pienamente operative fino a gennaio 2020.
Quanto emerge dai dati sulla Cig e sul calo occupazionale per settori porta a farci credere che se da un lato questa misura è risultata sufficiente a mitigare l’impatto della crisi sulla manifattura, dall’altro l’estensione a nuovi settori non sembra aver funzionato a sufficienza. Come purtroppo spesso accade in Italia i più colpiti sono stati i giovani e i non laureati e ad ora non sembrano esserci motivi per credere che l’epilogo della seconda ondata possa essere in alcun modo differente.