Articolo scritto per Econopoly – Il Sole 24ORE

I dipendenti pubblici in Italia costituiscono meno del 15% degli occupati, contro una media Ocse del 18%, e dal 2007 il settore pubblico ha visto costantemente diminuire il numero di impiegati a seguito del cosiddetto blocco del turnover. Conseguentemente, l’età media è cresciuta oltre i 50 anni e, ormai, quasi la metà dei dipendenti pubblici ne ha più di 55. Nei prossimi anni il comparto dovrà fronteggiare la sfida di sostituirne centinaia di migliaia. Chi li sostituirà condizionerà il futuro dell’Italia intera. In questo nostro terzo contributo parliamo della distribuzione dei dipendenti pubblici sul territorio nazionale e all’interno dei vari settori, analizzando le divergenze regionali e settoriali.

Italia ed Europa a confronto

In due precedenti articoli su questo blog abbiamo descritto le sfide della PA italiana e del settore pubblico del presente e del futuro, soffermandoci sulla questione di genere e sul tema sempre attuale delle competenze. È utile ora introdurre alcuni numeri per poter capire l’importanza di una componente dell’economia italiana fondamentale come quella del pubblico. Nel 2017, il nostro paese contava circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici. Si nota un trend stabile: nel 2015, si registrava un numero simile di addetti del settore pubblico. L’Italia presenta un rapporto tra dipendenti pubblici ed abitanti del 5,3%; guardando al panorama internazionale, il rapporto sul totale degli occupati è basso: circa il 14%, contro una media Ocse del 18%. I paesi del Nord Europa si attestano sul 25-30%, la Francia intorno al 20%. Appare quindi falso il luogo comune che vede l’Italia come un paese largamente basato sull’impiego pubblico. Inoltre, la principale causa della stagnazione di questo dato è il blocco del turnover nel settore pubblico, rimosso definitivamente nel novembre 2019.

Impiegati pubblici nelle regioni italiane

Utilizzando i dati del Conto Annuale 2017, si nota che la media di dipendenti pubblici sul numero di abitanti per regione si attesta attorno al 6%. A livello regionale, tuttavia, si notano differenze significative. Emerge una fotografia che mette in risalto la Valle D’Aosta e le province autonome di Bolzano e Trento ben al di sopra della media. Lombardia, Veneto e Campania, in fondo alla classifica, non superano il 5% (figura 1). Queste divergenze, seppur di lieve entità, possono essere spiegate in parte dall’esistenza di economie di scala: alcune funzioni svolte dagli enti locali richiedono, per ragioni legislative o di necessità, un numero minimo di dipendenti, indipendentemente dalle dimensioni della regione. Questo porta le regioni con un minor numero di abitanti ad avere un numero di dipendenti per abitante più elevato. D’altra parte, anche lo status di regione a statuto straordinario sembra essere un fattore rilevante.  Una possibile spiegazione della percezione distorta riguardo la dimensione della pubblica amministrazione emerge nel rapporto dei dipendenti pubblici sul totale degli occupati: al Sud, il ruolo di datore di lavoro del settore pubblico è nettamente più rilevante a causa del basso tasso di occupazione delle regioni meridionali.

Uno sguardo ad alcuni comparti

Spostando lo sguardo verso la distribuzione dei dipendenti pubblici nei principali comparti, nella figura 2 possiamo vedere che più di un terzo degli impiegati pubblici è occupato nella scuola, circa il 20% in sanità, un altro 20% in pubblica amministrazione, il 18% in forze armate e polizia. La restante parte si divide tra università, giustizia ed “altro” (carriere diplomatiche, enti pubblici non economici etc.).

In ogni regione, la sanità rappresenta uno dei comparti con il più alto numero di impiegati pubblici sul totale della popolazione occupata. Fra le regioni con la più alta percentuale di occupati in questo settore svetta la Valle D’Aosta (4%), mentre Lazio e Lombardia occupano con percentuali intorno al 2%.

Questa misura però, seppur indicativa della numerosità del personale impiegato nella sanità pubblica in ogni regione, non permette di comprendere appieno le dimensioni di questo settore rispetto al numero degli abitanti serviti dal comparto in ogni regione. Infatti, analizzando quest’ultima misura nel grafico sotto, vediamo come la Valle D’Aosta presenti comunque il numero più elevato di personale sanitario rispetto agli abitanti, mentre la Sicilia, con molti occupati nel settore rispetto agli occupati totali,  ha meno di un impiegato nella sanità pubblica ogni 100 abitanti. Nel 2017, la percentuale di addetti socio-sanitari sulla popolazione nazionale era di circa l’1%: Lombardia, Calabria, Molise, Puglia, Sicilia, Lazio e Campania mostrano tutte dati al di sotto della media nazionale. Questi dati, se confrontati con i paesi Ocse, evidenziano una carenza di personale sia rispetto alla popolazione che agli occupati. Inoltre, come avevamo già fatto notare in un articolo precedente, il nostro paese è il primo in classifica per la percentuale di medici al di sopra dei 55 anni: 55%, contro una media Ocse del 34%. Infine, sebbene il numero di medici sia leggermente più elevato rispetto alla media Ocse, nel 2017 l’Italia registrava una carenza di infermieri (6 ogni mille abitanti, contro la media Ocse di 9) (Figura 3).

Per quanto riguarda la scuola, Calabria e Sicilia risultano le regioni con la più alta percentuale di dipendenti sul totale della popolazione, con circa 2,6 impiegati ogni 100 abitanti, mentre Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna e Veneto restano le regioni con il numero più basso di addetti nel settore in base alla popolazione (Figura 4). Un dato, quest’ultimo, che non stupisce: in queste regioni, l’emergenza posti vacanti si ripete ogni settembre, protraendosi spesso per tutto l’anno scolastico. Nonostante i dati mostrino una carenza di insegnanti in alcune regioni del nostro paese, in realtà l’Italia nel 2017 era una delle nazioni d’Europa con il più basso rapporto studenti-insegnanti: dopo la tornata di stabilizzazioni del 2016, il nostro paese mostrava un rapporto pari circa a 9,8 studenti per ogni docente, superata solo dalla Grecia con 9 studenti per docente. Il problema, quindi, più che il numero di docenti in sé, sembrerebbe riguardare l’incapacità di stimare il fabbisogno di personale in determinate aree del paese, al fine di programmare le stabilizzazioni dei docenti e la loro allocazione.

Le sfide dei mesi che verranno

Negli anni, l’opinione pubblica si è spesso scagliata contro il settore pubblico, definendolo come un comparto caratterizzato da un eccessivo numero di dipendenti, e conseguentemente fonte di spreco di denaro per lo Stato. Inoltre, le regioni del Sud Italia sono state spesso considerate come dipendenti dall’occupazione nel settore pubblico. In questo contributo abbiamo cercato di spiegare attraverso i dati che le affermazioni sopra riportate sono in buona parte falsi miti.

Inoltre, a partire dai prossimi mesi, il settore pubblico italiano, e in particolare la pubblica amministrazione, si troveranno ad affrontare le sfide imposte dall’implementazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il più grande piano di investimenti che il nostro paese abbia mai realizzato in un arco temporale così ridotto. Per questa ragione è importante che la macchina pubblica sia preparata e disponga di sufficienti risorse in termini di personale, alla luce anche dell’elevato numero di pensionamenti che si verificheranno nei prossimi anni. È fondamentale quindi che insieme all’auspicio di una gestione del turnover che tenga conto delle competenze specifiche e dei fabbisogni dei singoli enti e comparti, le nuove assunzioni vengano programmate tenendo conto della rilevanza strategica di alcuni comparti del settore pubblico come sanità ed istruzione, che impiegano larga parte dei dipendenti pubblici. Sarebbe auspicabile, inoltre, che le assunzioni dei prossimi mesi riuscissero a coprire almeno il 100% del personale in uscita: lo sblocco del turnover che citiamo sopra infatti, attuato con il ddl “Concretezza”, non è connesso al numero dei contratti cessati, bensì alla spesa relativa al personale di ruolo fuoriuscito l’anno precedente e alla condizione finanziaria dell’ente. Ad esempio, se in un determinato ente pubblico 50 dipendenti andranno in pensione, questo non implica che l’ente possa assumere necessariamente 50 nuovi impiegati. Parallelamente, la programmazione delle assunzioni dei prossimi mesi e anni dovrebbe certamente permettere di colmare alcuni gap, come quelli di personale di alcune regioni mostrati in questo articolo: scuola e sanità hanno sempre goduto di speciali deroghe per facilitare le assunzioni negli anni, ma in questo momento è più che mai necessario uno snellimento delle procedure concorsuali e di stabilizzazione, che permetta un rinnovamento e ringiovanimento del settore pubblico italiano.

Twitter @Tortugaecon

Enrico Cavallotti*

Nato nel 1995 e laureato in Economia Politica, Enrico Cavallotti ha lavorato presso Nomisma ed il Centre for Economic Performance (LSE). È attualmente assegnista di una borsa di studio presso l’Università Bocconi e senior fellow del think tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo

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