Articolo pubblicato per Linkiesta

Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza sono previste nuove risorse da investire in enti aggregatori. Ma prima sarebbe opportuno fare un’analisi sistematica a livello nazionale dell’attività degli enti già presenti, come centri di competenza e poli digitali, per analizzarne l’efficacia nel promuovere l’innovazione nel tessuto imprenditoriale italiano

Da tempo la Commissione Europea chiede all’Italia di accelerare sul processo di digitalizzazione e, più in generale, di promuovere con più vigore iniziative volte a promuovere l’innovazione nel nostro paese. Il tema viene esplicitamente affrontato nel secondo pilastro della sezione 4 del Piano nazionale di ripresa e resilienza “dalla ricerca all’impresa”, dove si ipotizza uno stanziamento di circa 5.18 miliardi di euro per iniziative legate al trasferimento tecnologico e al sostegno alle imprese. 

In un precedente articolo ci siamo concentrati sul contributo diretto che le università possono fornire all’innovazione tramite trasferimento tecnologico, ma potenziare il trasferimento tecnologico dagli atenei non esaurisce lo spettro di iniziative potenzialmente utili. Una delle politiche pubbliche più utilizzate per incentivare l’innovazione è la creazione di enti aggregatori di soggetti che contribuiscono all’ecosistema innovativo ed economico, come imprese, atenei e altri enti di ricerca. Questi soggetti possono essere variamente definiti a seconda delle caratteristiche specifiche: Poli tecnologici, Centri di competenza, Hub digitali, Parchi tecnologici.

Anche il Pnrr va in questa direzione. Dei 5.18 miliardi stanziati per la linea di intervento citata sopra, 1.3 miliardi saranno utilizzati per finanziare la creazione di 20 “campioni territoriali di R&S” e 1.6 miliardi per il progetto di “Potenziamento strutture di ricerca e creazione di campioni nazionali di R&S su alcune tecnologie chiave”. I dettagli sulla forma che assumeranno questi “campioni nazionali” e i loro obiettivi sono per il momento sconosciuti; il piano si limita ad affermare che partiranno da una università o un centro di ricerca e favoriranno il collegamento tra ricerca e industria. I campioni nazionali saranno 7 come le tecnologie chiave.

Gli enti aggregatori a cui si fa riferimento nel Pnrr non sono però una novità. Infatti, nel 2018 il ministero per lo Sviluppo Economico (Mise) ha emesso un bando a livello nazionale per la selezione di centri di competenza cui destinare risorse. I centri di competenza sono strutture pubblico-private, spesso legate ad atenei di spicco, che supportano prevalentemente le Piccole e medie imprese attraverso attività di formazione in ambito di Industria 4.0 e di supporto per progetti di innovazione. 

Simili funzioni sono svolte anche dai poli digitali o Digital Innovation Hubs, che agiscono da mentori e broker tecnologici per le imprese del territorio. I poli digitali sono coordinati da Confindustria e offrono i loro servizi in collaborazione con una rete di attori dell’innovazione, tra cui università, parchi tecnologici e centri di competenza. Nel contesto del “Programma Europa Digitale”, il Mise ha definito una procedura di selezione di poli digitali italiani che riceveranno fondi dall’Unione Europea a sostegno delle loro attività. Tra le proposte dei 45 poli digitali candidati alla prima fase di selezione, è prevista anche la partecipazione degli otto centri di competenza selezionati dal Mise, spesso in qualità di capofila. Appare quindi meno netta la distinzione tra questi due tipi di enti aggregatori (i poli digitali e i centri di competenza), che vengono descritti come centri di eccellenza nel facilitare l’innovazione, ma i cui risultati non sembrano essere stati analizzati in dettaglio. Al momento, valutazioni dei poli di innovazione sono state fatte su iniziativa volontaria a livello regionale, come nel caso del Piemonte.  

La difficoltà nel misurare l’impatto di queste iniziative
Esulando dal contesto Italiano, la (limitata) letteratura economica ci fornisce una buona e una cattiva notizia. La buona notizia è che a livello aggregato i poli/parchi tecnologici sembrano avere un impatto concreto sulla capacità innovativa delle aziende ad essi legati. La cattiva notizia è che l’efficacia risulta estremamente variabile e dipende dalle caratteristiche specifiche dei poli (Link and Scott 2007Siegel et al. 2003). Questo è un problema vista l’ampia eterogeneità degli enti aggregatori.

Alcune evidenze (Fukugawa 2006) per esempio suggeriscono il ruolo importante delle università (la loro presenza all’interno del parco ne aumenta l’efficacia favorendo attività di R&D tra le aziende del parco), ma sottolineano come i risultati in termini di trasferimento delle conoscenze siano visibili solamente quando vengono istituite strutture apposite: non basta la vicinanza fisica degli uffici aziendali per generare innovazione. O ancora si osserva come i benefici dei parchi siano visibili principalmente per imprese già altamente innovative (Corrocher et al. 2019). Un risultato problematico se considerato insieme al fatto che i poli già tendono ad invitare proprio le aziende di questo tipo. Il polo rende le aziende più innovative o semplicemente selezionate aziende più innovative? Una ricerca (Helmers 2017) indica che proprio è l’effetto rete tra aziende innovative a renderle ancora più innovative, a patto che appartengano allo stesso settore.

Il Bollettino Adapt (Prodi, 2014) sottolinea la mancanza fino ad ora di una valutazione sistematica di questi enti aggregatori, sostenendo quindi che l’ente pubblico stia investendo nella loro creazione «senza fondare la loro progettazione su esperienze precedenti». Lo stesso rapporto spiega come i parchi tecnologici abbiano storicamente concepito il trasferimento tecnologico come un processo lineare e unidirezionale da università ad imprese, che però appunto non è sempre garanzia di innovazione. In questo senso, l’approccio di aggregazione dei centri di competenza, che introduce una logica di rete, sembra andare nella giusta direzione in termini teorici. Per valutarne la reale efficacia sarebbero però necessari studi empirici. 

Il contenuto del PNRR va quindi accolto favorevolmente, rimanendo però consapevoli che il diavolo sta nei dettagli: l’efficacia delle policy dipenderà in larga parte dalle scelte in fase di implementazione non ancora delineate e su cui non sembriamo essere preparati al meglio.

Infine è importante affrontare la questione del “modello Fraunhofer” che spesso viene citato quando si parla di policies riguardanti l’innovazione. In Europa non mancano infatti veri e propri centri di ricerca di grandi dimensioni, che attirano ogni anno ricercatori ed esperti da ogni parte del mondo e che sono diventati degli hub per l’innovazione, senza essere però degli enti aggregatori puri.

Il modello Fraunhofer
Il centro di ricerca applicata tedesco Fraunhofer è una rete di 75 centri di ricerca uniti in un’istituzione singola, sostenuto da finanziamenti statali solamente per un terzo del bilancio. Essendo riconosciuto a livello internazionale come modello di eccellenza scientifica, il Fraunhofer attrae ricercatori internazionali e si occupa dello sviluppo di tecnologie reputate chiave per essere sfruttate commercialmente. Inoltre, anche attraverso la costante collaborazione con il centro per la ricerca di base Max Planck svolge un ruolo centrale nel processo di innovazione e nell’individuare canali per l’applicazione dei risultati della ricerca di base. 

Il modello Fraunhofer è citato come esempio da perseguire da molti addetti ai lavori. Per esempio l’ex segretario della Fim Cisl, Marco Bentivogli, ha fondato Innovaction, dichiarando di ispirarsi proprio al modello Fraunhofer. Innovaction sembra tuttavia ancora lontana dal modello Fraunhofer, essendo un network  di quattro hub di innovazione tecnologica che ha l’obiettivo di promuovere la diffusione dell’innovazione sul territorio italiano, e non un’istituzione che produce ricerca propria e aggrega istituti di ricerca in un ente con un unico bilancio. Un istituto di simili dimensioni e successo è ancora lontano dalla portata Italiana.

Perseguire propriamente un “modello Fraunhofer” implicherebbe prima di tutto l’espansione dei centri di ricerca con una marcata vocazione al trasferimento tecnologico, come l’Enea.
Come era stato per il Fraunhofer ai tempi, non è affatto impensabile che un istituto di ricerca pubblico finanziato dallo stato in una prima fase, possa poi diventare economicamente e finanziariamente autosufficiente nel medio periodo. L’aggregazione di hub in un unico network potrebbe però non riuscire a generare risultati importanti  in mancanza di un presidio sull’efficacia dell’innovazione generata e soprattutto di incentivi per la generazione di una vera rete di trasmissione di competenze e collaborazioni. Inoltre, si dovrebbe comunque partire dalle necessità delle aziende, ovvero dalla domanda, che sono strutturalmente differenti da quelle dell’industria tedesca.

In conclusione, il Fraunhofer potrebbe essere un buon modello a cui ispirarsi nel lungo periodo per la creazione di un ente nazionale che aggreghi centri di ricerca e hub innovativi per lo sviluppo e la diffusione dell’innovazione. Prima di creare nuovi enti, però, sarebbe opportuno effettuare valutazioni empiriche dell’attività degli enti già presenti, come centri di competenza e poli digitali, per analizzarne l’efficacia nel promuovere l’innovazione nel tessuto imprenditoriale italiano. Siccome nuove risorse verranno investite in questi enti aggregatori, come previsto dal Pnrr, una valutazione della loro efficacia non deve rimanere un’iniziativa volontaria a livello regionale di limitata affidabilità, ma diventare un’analisi sistematica e a livello nazionale. Tuttavia, nello svolgere analisi in merito, bisognerà considerare l’impossibilità di ottenere risposte univoche in quanto fino ad ora il contesto si è rivelato cruciale nel determinare il successo di questi enti.

Hanno collaborato all’articolo:
Beatrice Luzzi – Nata a Firenze, classe 1994. Laureata in International Management in Bocconi, attualmente Consulente Strategico presso zeb consulting. Ha competenze e interessi in ambito finanziario e manageriale. È collaboratrice esterna del think tank Tortuga tramite il quale pubblica questo contributo.

Andrea Chiantello – ha lavorato a DG competition della Commissione Europea, ed è ora analyst per una consulenza economica. È senior fellow di Tortuga tramite il quale pubblica questo contributo.

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