Articolo pubblicato per Econopoly – Il Sole24ORE
Per fronteggiare l’attuale crisi pandemica e l’altrettanto rilevante questione climatica, sarà necessario che le imprese tornino a innovare per aumentare la propria produttività e indirizzare le risorse sui settori chiave del futuro. In Italia, però, il tema dell’innovazione e delle politiche per promuoverla è da tempo cruciale, dato che la spesa in ricerca e sviluppo è inferiore a quella degli altri paesi europei e la produttività è stagnante da 20 anni.
Eppure, se si consultano i dati relativi al numero di imprese che innovano in Italia, la prospettiva sembra più rosea. Secondo dati Istat, più della metà delle imprese ha effettuato attività innovative nel triennio 2016-2018. In particolare, il 31% ha effettuato innovazioni di prodotto e il 46% innovazioni di processo. Mentre le innovazioni di prodotto sono volte a migliorare in modo incrementale o radicale beni e servizi, le innovazioni di processo, sia radicali che incrementali, sono volte ad aumentare l’efficienza dei processi produttivi per ridurre il costo di produzione.
Un’analisi più dettagliata di questi numeri permette di avere un’idea più approfondita di come le imprese italiane innovino. Osservando la percentuale di imprese innovative in ogni settore (figura 1 e 2), si nota come l’innovazione di processo sia ampiamente più diffusa in ogni settore dell’economia. In nessun settore infatti la percentuale di imprese con innovazioni di processo scende sotto il 27%.
Il problema è che, nonostante l’attività innovativa sia quantitativamente diffusa, essa è anche caratterizzata da un “salto innovativo” ridotto, con innovazioni di prodotto per lo più di natura incrementale e con quelle di processo che spesso corrispondono all’acquisto di nuovi macchinari (Bugamelli et al. 2012). Questo genere di innovazioni sembra essere preferito dalle imprese, in quanto implica un rischio minore e uno sforzo manageriale e finanziario più contenuto, a fronte però di un minore ritorno potenziale in termini di produttività.
Tuttavia, incentivare il “salto innovativo” non è semplice e da tempo i governi si interrogano su quali siano le politiche più efficaci. Una delle tecniche più diffuse di sostegno all’innovazione consiste negli incentivi fiscali, attraverso la tassazione agevolata (crediti d’imposta) delle spese in ricerca e sviluppo (R&S), o per mezzo di esenzioni e deduzioni che riducono la base imponibile, per esempio sottraendo parte del costo del lavoro dei ricercatori e delle spese correnti.
Gli incentivi fiscali all’innovazione e la loro efficacia
Gli incentivi fiscali sulle spese in R&S sembrano essere efficaci: una diminuzione della tassazione su R&S del 10% porterebbe a un aumento della spesa di ricerca di almeno 10% (Bloom et al., 2019), sebbene l’ effetto dipenda dalle caratteristiche del paese di adozione e alla struttura specifica dell’incentivo fiscale.
Ma non tutti gli incentivi fiscali hanno la stessa efficacia. È possibile identificare due tipologie principali di incentivi: gli incentivi incrementali – ovvero quelli applicati solamente alle spese in R&S sopra una certa soglia, tipicamente la spesa media in R&S negli anni precedenti – e volume-based – ovvero gli incentivi applicati a tutte le spese di R&S. I primi, pur essendo più efficaci nello stimolare attività di R&S, hanno alti costi amministrativi, e creano distorsioni nei piani di investimento delle aziende, perché la dimensione del beneficio che otterranno in futuro dipende dalla spesa corrente in R&S, che quindi potrebbe venire ridotta per poter sfruttare di più l’incentivo negli anni successivi. Per questi motivi il sistema volume-based è quello più applicato, anche se il ritorno sembra essere minore o addirittura negativo (Lokshin & Mohnen, 2012)
Un ulteriore elemento di variabilità nell’efficacia riguarda poi le dimensioni delle aziende: per ogni euro di incentivo, le piccole aziende aumentano la propria spesa in R&S più di quanto non facciano le grandi (Appelt et al., 2016), giustificando quindi il focus di molti paesi sull’innovazione delle Pmi.
La dimensione temporale copre infine un ruolo chiave nella valutazione delle politiche di innovazione delle aziende. Ci sono pochi studi che evidenziano l’efficacia degli incentivi fiscali in base al loro orizzonte temporale. Uno studio finlandese mostra come un incentivo temporaneo abbia effetti ridotti sull’investimento in R&S. Rao (2015) sottolinea che, siccome gli investimenti in R&S hanno una prospettiva a lungo termine e sono costi irrecuperabili, incentivi fiscali prevedibili e stabili sembrano avere un impatto più forte sull’investimento in R&S.
La letteratura economica evidenzia quindi come la stabilità e la prevedibilità delle politiche di incentivazione sia un elemento chiave per supportare le imprese a intraprendere attività per natura rischiose come la R&S.
La situazione in Italia
Anche l’Italia ha introdotto misure di incentivo all’innovazione. Esse sono fra le misure di maggiore rilevanza all’interno della politica industriale denominata “Industria 4.0”, presentata per la prima volta nel 2016, e a oggi finanziata principalmente sotto il nome di “Transizione 4.0”. Questo piano, dalla durata di due anni, potenzia tutte le aliquote di detrazione, anticipandone la fruizione, con l’obiettivo di dare certezze alle imprese e stimolarne gli investimenti.
Sommariamente, il piano di incentivazione pubblico è imperniato su tre misure principali di incentivo fiscale: il credito d’imposta per i beni strumentali, per la ricerca, e per la formazione.
Nel primo caso viene fatta una distinzione tra beni materiali tecnologicamente avanzati, beni immateriali innovativi e altri beni strumentali materiali. Le categorie beneficiano di un credito d’imposta decrescente (rispettivamente 40%, 15% e 6% sulle spese d’acquisto dei beni) fino ad una spesa massima che dipende dalla dimensione dell’azienda.
Il credito d’imposta verso le spese di R&S ha l’obiettivo di migliorare l’efficienza del processo produttivo e, soprattutto, di rendere le aziende più competitive a livello internazionale attraverso l’introduzione di nuovi prodotti e servizi. La misura in particolare distingue fra ricerca di base e sviluppo tecnologico, transizione ecologica, design e innovazione di processo o prodotto (con aliquote sulle spese in R&S rispettivamente a 12%, 10% e per gli ultimi due al 6%).
È interessante osservare come questi incentivi siano più utilizzati nei settori dove l’innovazione di prodotto è relativamente più intensa (Figura 3). Sebbene questa correlazione non ci permetta di trarre alcuna conclusione definitiva, appare verosimile che l’innovazione di processo sia meno impegnativa e legata all’acquisto di beni materiali, mentre l’attività di R&S abbia maggiore impatto sull’innovazione di prodotto, la quale a sua volta influenza maggiormente la produttività (Hall 2011, Bauman e Kritikos 2016). Ciò che è certo è che nei settori più innovativi, la differenza tra imprese innovatrici di prodotto e processo si assottigli (Figura 2).
Per quanto riguarda invece l’effetto aggregato di tutti gli incentivi introdotti tra il 2016 e il 2018, un recente studio della Banca d’Italia ha evidenziato una crescita nella produttività delle aziende beneficiarie con effetti rilevanti sulla crescita economica. Ciò che emerge dallo studio è che gli incentivi sono stati utilizzati maggiormente da aziende medie e grandi, con un livello produttivo di partenza maggiore, e prevalentemente situate al Nord.
Cosa si potrebbe fare
Attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sono stati stanziati quasi 14 miliardi per la copertura del credito d’imposta di “Transizione 4.0”, eliminandone i finanziamenti annuali in legge di bilancio e rendendola una misura continuativa. Visti i risultati positivi, riteniamo che abbia senso continuare a incentivare politiche di innovazione industriale con l’obiettivo di colmare il gap con i livelli di innovazione europei.
D’altra parte in Italia il potenziale della misura è ancora parzialmente inespresso, poiché il numero di piccole imprese che fa domanda per incentivi fiscali è relativamente inferiore al numero di aziende medie e grandi, sebbene la letteratura indichi come siano proprio le aziende piccole a beneficiare maggiormente da questa misura.
Sarebbe quindi importante rendere gli incentivi più appetibili per le piccole imprese, vista la loro preponderanza nel sistema produttivo italiano e al Sud in particolare, cercando di comprendere i motivi che le scoraggiano dal fare domanda. Per intervenire si potrebbero introdurre oltre alle aliquote differenziate per dimensione dell’impresa, anche sussidi differenziati – particolarmente per i settori credit-constrained – o altri servizi complementari di supporto. Infatti, la minor risposta delle piccole imprese, specialmente del Sud, ad incentivi fiscali per l’innovazione, potrebbe essere determinata da un fattore culturale. Una soluzione per rendere le piccole aziende più aperte all’innovazione potrebbe essere quella dei servizi di consulenza per tecnologia e innovazione, che guidano le Pmi all’adozione e allo sviluppo di nuove tecnologie, sull’esempio del Mas inglese o dell’istituto Fraunhofer in Germania. Questi programmi sembrano avere un effetto modesto ma positivo su produttività e innovazione (Shapira & Youti, 2016). Alla luce di questo, il Pnrr potrebbe essere un’opportunità per affinare le politiche di incentivi fiscali per ricerca e sviluppo, integrandole con misure che ne aumentino l’efficacia.
Ha collaborato all’articolo:
Andrea Chiantello – ha lavorato a DG competition della Commissione Europea, ed è ora analyst per una società di consulenza economica. È inoltre senior fellow di Tortuga tramite il quale pubblica questo contributo.