Articolo pubblicato su lavoce.info

Il dibattito nazionale sul salario minimo si è arenato, ma la discussione prosegue a livello locale. Per esempio, a Milano si ragiona di un salario giusto, calcolato sulla base del costo della vita, con adozione volontaria da parte delle aziende.


Sintesi

  • Per raggiungere la soglia di povertà, a Milano un lavoratore single deve guadagnare 1.175 euro al mese: 8,30 euro all’ora se lavora a tempo pieno.
  • I lavoratori più poveri, i giovani, quelli con un titolo di studio meno avanzato, gli operai e i lavoratori nelle imprese più piccole guadagnano meno a Milano che nel resto del Paese.
  • Proponiamo quindi un salario minimo volontario per le aziende, con incentivi da parte del settore pubblico.
  • Questo “salario minimo di sussistenza” sarebbe basato su criteri oggettivi, aggiornati annualmente al variare del costo della vita​.

Il dibattito arenato a livello nazionale

La proposta di introdurre un salario minimo per legge non sembra più al centro del dibattito politico nazionale. Su lavoce.info si è spesso discusso di questo tema, sia con una prospettiva più economica (come qui e qui) sia con una più giuslavoristica (come qui e qui). I principali punti su cui il dibattito nazionale sembra essersi arenato sono tre:

  1. la determinazione della cifra oraria;
  2. le modalità di traduzione dell’eventuale cifra nei termini che compongono la retribuzione di un lavoratore all’interno dei contratti di lavoro (che non sono soltanto i minimi tabellari);
  3. l’effettiva platea di lavoratori a cui una misura del genere sarebbe rivolta, e l’eventuale (in)sufficienza della normale contrattazione collettiva per fornire una adeguata tutela a tali lavoratori.

Il dibattito sembra però aver fatto progressi a livello locale. A Firenze, per esempio, è stato introdotto il principio del salario minimo come criterio obbligatorio per qualunque appalto di opere o servizi. Significa che, per partecipare, le aziende dovranno applicare un minimo salariale di 9 euro l’ora. A Milano, invece, il confronto si è spinto su una proposta più ambiziosa, ovvero quella di prendere ispirazione dal modello londinese del London Living Wage, calcolato sulla base del costo della vita e ad adesione volontaria da parte delle imprese. L’iniziativa è partita dal movimento di advocacy Adesso!, che ha realizzato un report in collaborazione con il think-tank Tortuga, presentato a Palazzo Marino.

Il modello londinese

Nel Regno Unito esiste da vari anni un salario minimo a livello nazionale, approvato dal parlamento e obbligatorio per legge, a cui è affiancato un salario di sussistenza (traduciamo così in italiano l’espressione “living wage”) ad adesione volontaria da parte delle imprese. Tra salario minimo e salario di sussistenza vi sono differenze nelle basi legislative, negli obiettivi e nella metodologia di calcolo.

Il salario di sussistenza della città di Londra ha l’obiettivo di integrare il salario minimo imposto a livello nazionale per adattarlo al costo della vita della città. Le aziende vi aderiscono in modo volontario, seguendo le indicazioni prodotte dalla commissione della Living Wage Foundation. Nel 2023 il salario minimo nazionale era fissato a 10,42 sterline, mentre il salario di sussistenza londinese arrivava a 13,15 sterline, una integrazione del 26 per cento. La cifra di 13,15 sterline è determinata sulla base del costo di un paniere di beni e servizi ritenuti essenziali per una esistenza dignitosa, il cui costo netto mensile viene tradotto poi in un salario lordo mensile e successivamente (assumendo un lavoro full-time di 40 ore settimanali) in una cifra lorda oraria.

Secondo uno studio di Jane Wills and Brian Linneker, tra il 2005 e il 2011, l’introduzione del London Living Wage ha coinvolto direttamente 11 mila lavoratori, per un aumento totale del monte salariale di 100 milioni di sterline. Il numero dei lavoratori coinvolti tuttavia corrisponde a meno del 3 per cento dei circa 450 mila lavoratori che nel 2005 non raggiungevano il salario di sussistenza. Tra i lavoratori coinvolti compaiono soprattutto donne e lavoratori non sindacalizzati e a basso reddito. Per quanto riguarda le imprese, il 70 per cento dichiara che adottare il London Living Wage ha avuto un impatto positivo sulla propria reputazione, mentre l’80 per cento afferma che ha migliorato la qualità del lavoro svolto dai propri dipendenti.

Lo scenario a Milano

La necessità di un salario giusto per Milano sull’esempio di quello londinese sorge da una lettura congiunta dei dati su costo della vita e stipendi orari.

Per quanto riguarda il costo della vita, abbiamo utilizzato i dati Istat sulle soglie di povertà assoluta, che con il recente aggiornamento metodologico sono divenuti disponibili a un livello geografico più granulare (come spiegato qui su lavoce.info). Emerge chiaramente come il costo della vita a Milano sia più alto che nel resto d’Italia per tutte le tipologie di nuclei familiari considerati dall’Istat. Per un single tra i 18 e i 29 anni, il costo del paniere minimo a Milano è superiore del 23 per cento rispetto alla media delle altre aree metropolitane del paese, del 37 per cento rispetto agli altri comuni sopra i 50 mila abitanti e del 39 per cento rispetto agli altri comuni sotto i 50 mila abitanti. Per una famiglia con due genitori tra i 30 e i 59 anni e un figlio tra gli 11 e i 17 anni, l’aumento dei costi per l’acquisto del paniere di beni e servizi essenziali a Milano è del 20 per cento rispetto alle altre aree metropolitane del paese, e del 29 per cento rispetto agli altri comuni d’Italia.

A partire dai dati Istat sulla soglia di povertà assoluta è possibile fare un “ragionamento inverso” e risalire a quale salario lordo orario sarebbe necessario per garantire a un lavoratore quel livello di stipendio netto mensile. Facciamo questo esercizio per un single tra i 18 e i 59 anni, per il quale l’Istat calcola a Milano una soglia di povertà pari a 1175 euro. Un reddito netto mensile di 1175 euro corrisponde a circa 1300 euro al lordo Irpef, e circa quindi 1400 euro al lordo dei contributi previdenziali a carico del lavoratore. Assumendo che il lavoratore sia impiegato full-time e lavori quindi 40 ore a settimana, per 4,3 settimane al mese, possiamo dedurre un salario lordo orario di circa 8,3 euro. Questo numero è al di sotto del salario lordo orario alla mediana, ma sopra, per esempio, a quello dei lavoratori 18-29enni nel decile più basso della distribuzione dei redditi orari, così come riportato nei dati Istat Racli.

La città metropolitana di Milano, infatti, solitamente offre retribuzioni orarie lorde più alte rispetto al resto dell’Italia e della regione Lombardia, ma ciò non è vero per tutti i lavoratori: esistono delle specifiche porzioni di lavoratori che addirittura ricevono meno dei propri colleghi in altre aree del paese e della regione. In particolare, i lavoratori più poveri, i giovani, quelli con un titolo di studio meno avanzato, gli operai e i lavoratori nelle imprese più piccole. Ciò è vero soprattutto per i lavoratori nel decile più basso della distribuzione dei redditi, che a Milano ricevono retribuzioni inferiori rispetto ai loro omologhi che lavorano nel resto della regione Lombardia.

Il confronto rimane aperto

Il report di Adesso! e del think-tank Tortuga ha generato un interessante dibattito all’interno della politica milanese. Un eventuale salario di sussistenza per il capoluogo lombardo potrebbe essere tradotto in un meccanismo volontario di adesione da parte delle aziende private in cambio di un “bollino di qualità” (sul modello, per esempio, di quello per le botteghe storiche). Il settore pubblico potrebbe adottarlo seguendo l’esempio di Firenze, inserendolo come criterio nei bandi di gara emessi dal comune. Oppure potrebbe divenire un punto di riferimento per giudici e pubblici ministeri chiamati a prendere decisioni in materia di art. 36 della Costituzione, oltre a essere un importante strumento in mano alle parti sociali in sede di contrattazione. Rispetto ai limiti del dibattito nazionale, la proposta milanese avrebbe il vantaggio di basare il calcolo della cifra oraria su criteri oggettivi e trasparenti, aggiornati annualmente al variare del costo della vita. La flessibilità insita nell’adozione volontaria rappresenterebbe un modo per scavalcare i problemi relativi alla incerta definizione dell’effettiva platea di lavoratori a cui una misura del genere sarebbe rivolta e all’eventuale (in)sufficienza della normale contrattazione collettiva nel fornire un’adeguata tutela a tali lavoratori. Il confronto rimane aperto.

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