Articolo pubblicato su Linkiesta
Alti tassi di archiviazione e poche condanne hanno spinto il governo Meloni a eliminare l’articolo 323 del codice penale, ma la scelta di inserire una fattispecie di peculato per distrazione rischia di non risolvere davvero il problema.
Sintesi
- Il governo ha abolito il reato di abuso d’ufficio.
- Il reato era caratterizzato da un alto tasso di archiviazioni e da poche condanne.
- L’abolizione potrebbe causare incertezza giuridica, poiché ora gli strumenti per combattere l’uso improprio del potere potrebbero essere insufficienti.
- Una nuova fattispecie di peculato per distrazione è stata introdotta per colmare il vuoto normativo.
- Resta il dubbio sull’efficacia della nuova norma e sull’opportunità di abolire l’abuso d’ufficio.
Il 10 giugno 2024, il Parlamento ha approvato definitivamente l’abolizione del reato di abuso d’ufficio (articolo 323 codice penale.). Il ministro della Giustizia Nordio l’aveva promossa sin dall’inizio del suo mandato, sostenendo gli effetti negativi di tale reato sia sull’attività amministrativa che sulla giustizia penale. Infatti, la prima sarebbe paralizzata dalla percezione di un elevato rischio di subire un processo (c.d. paura della firma) e, al contempo, l’altissimo numero di procedimenti per abuso d’ufficio, accompagnato da poche condanne, contribuirebbe all’inefficienza del sistema giudiziario.
La questione dell’eccessiva estensione del reato di abuso d’ufficio non è nuova e, per questo motivo, la norma è stata oggetto di numerose riforme. In origine, durante il fascismo, la formulazione del reato era molto ampia, generando una situazione di grande incertezza giuridica per gli amministratori pubblici, nonché problemi relativi alla separazione dei poteri. Era punito il pubblico ufficiale che semplicemente “abusasse” del proprio ufficio. Dopo le riforme del 1990 e del 1997, l’abuso doveva consistere in un danno o vantaggio ingiusto intenzionale collegato a una violazione (a) di leggi o regolamenti, oppure (b) dell’obbligo di astensione in presenza di un conflitto di interesse. Così l’abuso d’ufficio si è delineato quale fattispecie che punisce comportamenti che, per quanto lesivi della pubblica amministrazione e degli interessi dei cittadini, difficilmente rientrano in altri reati, come il caso dell’amministratore locale che affidi un appalto a un suo amico o familiare.
L’abuso d’ufficio è stato ulteriormente ristretto nel 2020 dal Decreto Semplificazioni con l’obiettivo di incentivare la spesa pubblica nella fase post-pandemica. Esso richiedeva la violazione di leggi che imponessero regole specifiche e che non lasciassero ulteriore discrezionalità all’amministrazione. Quindi, il pubblico ufficiale rispondeva nel caso in cui la legge imponesse di indire una gara d’appalto e questi optasse, invece, per l’assegnazione diretta per favorire qualcuno. Non era, invece, penalmente responsabile per la scelta del soggetto affidatario nel caso in cui fosse stato lecito procedere ad appalto diretto. Tuttavia, il reato risultava ancora capace di sanzionare penalmente alcune condotte riprovevoli, tra cui quelle di perseguimento di interessi personali nell’esercizio della funzione pubblica, o di nepotismo, anche se ad alcune condizioni precise.
Secondo l’analisi delle sentenze massimate della Cassazione dal 1997 al 2022 effettuata da Cecilia Pagella, ricercatrice presso l’Università degli Studi di Milano, tra le condotte sanzionate rientravano, ad esempio, l’assegnazione di posti di lavoro a membri della propria famiglia, il demansionamento di dipendenti a scopi ritorsivi e numerose ipotesi di rilascio illegittimo di permessi di costruzione. In generale, la maggior parte delle condotte riguardava pubblici ufficiali che sfruttassero la loro posizione per conferire un vantaggio a terzi o, in casi più rari, cagionare un danno.
Nonostante il dibattito si sia concentrato soprattutto sui sindaci, in realtà la metà delle sentenze analizzate riguarda soggetti tecnici (professori, magistrati, polizia). Quelle relative ai sindaci si fermano al ventitré per cento, e al ventuno per cento per gli altri detentori di cariche elettive (ad es. presidenti di regione o consiglieri comunali). Peraltro, i soggetti tecnici registrano in Cassazione un minore tasso di assoluzione rispetto ai politici (cinquantotto per cento vs trentasette per cento). Inoltre, il ministro Nordio ha sottolineato la forte asimmetria tra numero di procedimenti per abuso d’ufficio e condanne. I dati del Ministero della Giustizia del 2021 mostrano, in effetti, che, a fronte di quattromilasettecento casi aperti e più di cinquemiladuecento chiusi durante l’anno, la tendenza emergente è quella di un alto tasso di archiviazione (settantotto per cento dei procedimenti).
Per comprendere il significato di questi numeri è necessaria una prospettiva più ampia. I dati Istat sul 2017 (ultimo anno disponibile) mostrano che, nonostante i numeri rimangano rilevanti, la percentuale di archiviazioni è diminuita di oltre dieci punti percentuali (ottantanove per cento nel 2017). Questo può indicare l’inizio di una tendenza positiva dopo la riforma del 2020. Inoltre, questi dati ci permettono di confrontare il tasso di archiviazione dell’abuso d’ufficio con quello di altri reati. Ne emerge come questi sia effettivamente tra quelli con il tasso di archiviazione più elevato, anche se non è l’unico.
L’alto numero di procedimenti è anche la conseguenza dell’elevato numero di denunce da parte di privati che si sentono pregiudicati dall’azione pubblica. In tale prospettiva, il fatto che molti di questi procedimenti vengano archiviati potrebbe dimostrare un buon funzionamento del sistema giudiziario nella selezione delle denunce. Infatti, l’archiviazione impedisce l’apertura di un processo vero e proprio nei confronti del pubblico ufficiale, che potrebbe, peraltro, non acquisire mai la consapevolezza di essere stato indagato (non essendo dovuta nessuna informazione a riguardo).
Verificando poi il rapporto tra i procedimenti per cui è stata esercitata l’azione penale e le condanne per tutti i reati, l’abuso d’ufficio rientra tra i reati con il rapporto più basso nel 2017 (otto per cento di condanne) a fronte di una media generale del quaranta per cento. Questo dato desta maggiore preoccupazione rispetto a quello sulle archiviazioni, dato che in questo caso l’amministratore deve affrontare un vero processo, con danni reputazionali ed economici.
In ogni caso, è bene ricordare che la norma penale non serve unicamente a imporre una pena dopo la commissione di un reato, ma mira anche a dissuadere i cittadini dal compiere determinate azioni. Pertanto, la necessità di una norma penale non deve essere valutata solo in base al numero di condanne annue (altrimenti dovremmo eliminare un numero considerevole di reati dal nostro ordinamento), ma anche in funzione alla sua capacità di identificare come dannosi determinati comportamenti lesivi di interessi generali e affermarne il disvalore sociale.
In conclusione, si conferma un problema relativamente al numero di procedimenti e condanne annui per il reato di abuso d’ufficio, ma questo va inquadrato correttamente. Anzitutto, non si tratta dell’unico reato che riscontra alti tassi di archiviazione e assoluzione. In secondo luogo, l’elevato numero di archiviazioni non è necessariamente un segnale negativo. Terzo, considerando la tendenza decrescente degli ultimi anni e la recente riforma del 2020, non è chiaro perché si sia ritenuto necessario intervenire nuovamente così presto, prima di poterne valutare appieno gli effetti.
Il reato di abuso d’ufficio tutela interessi quali la meritocrazia, la concorrenza economica e la corretta gestione delle risorse pubbliche, spesso compromessi da una gestione personalistica del potere da parte degli amministratori pubblici. La mancanza di questa norma potrebbe lasciare il nostro Paese privo di strumenti per contrastare tali comportamenti, peraltro largamente diffusi. Tale necessità è stata percepita dal Governo stesso che, mentre il Parlamento votava l’abolizione dell’abuso d’ufficio, ha deciso di inserire nel Codice penale una fattispecie di peculato per distrazione. Questo reato era stato eliminato dalla riforma del 1990 e tornerà a punire il pubblico ufficiale che fa uso di denaro pubblico per scopi «diversi da quelli previsti dalla legge». Bisognerà vedere come questa nuova norma verrà interpretata dalla giurisprudenza, dato che potrebbe ricomprendere molte delle ipotesi prima previste dall’abuso d’ufficio. Ironicamente questa situazione pare generare ulteriore incertezza giuridica per gli amministratori pubblici.