Articolo scritto per Business Insider
Mercoledì 15 gennaio Stati Uniti e Cina hanno siglato quello che è stato definito dallo stesso Trump uno “straordinario” accordo commerciale, dopo più di venti mesi di schermaglie. Ma è veramente straordinario?
Numeri difficili da rispettare
I dettagli: la Cina acquisterà beni statunitensi per almeno 200 mld di dollari in più rispetto al 2017. Gli acquisti avverranno nel prossimo biennio e si concentreranno nel settore energetico (prevalentemente petrolio e gas), nei prodotti manifatturieri, agricoli e dei servizi. In cambio gli Stati Uniti si impegnano a ridurre dal 15% al 7,5% l’aliquota dei dazi imposti su 120 mld in merci cinesi, lasciando invariata quella del 25% su altri 250 mld, destinata a essere ridotta nelle fasi successive dell’accordo.
Numeri che potrebbero essere difficili da rispettare. Per onorare i patti, la Cina dovrebbe aumentare l’import dagli Us del 56% rispetto al 2019. Difficile pensare che un accordo commerciale possa essere così influente.
Ma vediamo perché.
Primo: dal 2012 al 2017, l’import cinese è cresciuto di circa il 28%, ma in un periodo di 6 anni e senza presenza di dazi. La metà di quanto richiesto in un solo anno.
Secondo: sul fronte energetico, l’export di petrolio e gas dovrebbe crescere del 25% rispetto ai volumi pre-dazi. Ma il calo nella domanda interna cinese e la presenza di raffinerie ottimizzate per materie prime dalle differenti caratteristiche chimiche potrebbero ostacolare l’incremento.
Terzo: la Cina si impegna a importare circa il 30% di prodotti agricoli in più. Ma assumendo che la composizione dell’export americano rimanga la stessa, per rispettare i patti la Cina dovrebbe importare praticamente tutta la produzione annuale di soia americana.
Non è tutto oro ciò che luccica
Ma l’accordo non modifica solo le tariffe. Il governo di Pechino si impegna ad attuare misure più rigide per la protezione della proprietà intellettuale, affinché le aziende statunitensi possano adire più facilmente le vie legali contro le controparti cinesi. In materia di valute, i due paesi promettono di evitare svalutazioni competitive e di impegnarsi a rendere maggiormente trasparenti le informazioni sulle riserve di valute estere, e i dati trimestrali di import e export. La Cina, infine, si impegnerà a mettere fine ai cosiddetti trasferimenti forzosi di tecnologia. Con questa tecnica il governo cinese obbligava le aziende straniere a cedere la loro tecnologia e proprietà intellettuale in cambio di permessi per investire sul territorio cinese e accedere al mercato.
A una prima lettura, l’accordo sembra essere una vittoria per gli Usa.
Ma il diavolo sta nei dettagli, quelli difficili da cogliere. Secondo alcuni esperti, l’accordo non include argomenti chiave.
Come il cyber theft, nuova frontiera dei furti di proprietà intellettuale.
Nell’ultimo decennio il governo di Pechino ha sempre negato le accuse che lo vedevano responsabile di aver hackerato i sistemi di aziende estere allo scopo di appropriarsi di segreti commerciali. Ciò che viene rimproverato al governo americano è quindi l’assenza, nella sezione relativa alla proprietà intellettuale, di clausole che mettano fine a questa pratica, da alcuni ritenuta fondamentale nello sviluppo economico cinese in alcuni settori.
L’altro tema scottante rimasto fuori dall’accordo è quello dei sussidi statali.
Una peculiarità dell’economia cinese è proprio l’erogazione di ingenti sussidi ad aziende private per accrescerne la competitività nel mercato globale. Un esempio: Huawei, che secondo un’inchiesta del WSJ avrebbe ricevuto sussidi per 75 mld di dollari dallo Stato. Allo scopo di limitare questo tipo di pratica, Usa, Ue e Giappone hanno emanato una proposta congiunta alla Wto richiedendo misure più stringenti nei confronti dei sussidi allo scopo di colmare dei vuoti nella regolamentazione internazionale sugli investimenti finora sfruttati da Pechino. Un altro punto lasciato fuori dall’accordo commerciale dal governo Trump è che non ha sfruttato la propria posizione per limitare i sussidi attraverso l’intesa commerciale. Ogni accordo richiede dei compromessi per conciliare le parti. Alcune volte grossi compromessi.
Perché ora?
L’accordo arriva dopo 20 mesi di tensioni e di rilanci tariffari e a pochi mesi dall’inizio dell’escalation mediatica che porterà all’elezione del prossimo presidente americano. La conclusione dell’accordo permette a Trump di vantare un successo in un momento delicato del suo mandato (ricordiamoci dell’impeachment). Se la motivazione politica è sicuramente una chiave di lettura, dall’altro lato occorre evidenziare anche le ragioni economiche.
I dazi cinesi infatti hanno colpito duramente alcune categorie (come gli agricoltori), che sono state indennizzate dallo stato federale con laute somme (si parla di circa 16 mld solo per l’agricoltura). Inoltre, alcuni studi hanno evidenziato come il costo dell’introduzione dei dazi sia ricaduto prevalentemente sui consumatori americani, non cinesi. Il mantenimento di queste misure nel lungo periodo avrebbe comportato ulteriori costi per la popolazione americana, con dubbi benefici. Un argomento potenzialmente ostile in campagna elettorale. Un allentamento delle barriere risulta allora vantaggioso sia dal punto di vista politico che economico.
Le conseguenze per l’Unione Europea
Un accordo con conseguenze rilevanti anche per noi europei. La riapertura commerciale potrebbe deteriorare la bilancia commerciale europea, in quanto Usa e Cina sono i primi destinatari delle esportazioni dell’Ue. In particolare, l’Ue soffrirebbe nel campo dei beni industriali e agricoli, dove la Cina si impegna ad acquistare beni statunitensi per 77 e 32 mld di dollari in più rispetto al passato, rispettivamente.
I 77 mld di dollari nel settore industriale sono quelli che dovrebbero maggiormente preoccuparci: secondo il Kiel Institute for the World Economy, il calo nelle esportazioni Ue che interesserà questo settore ammonterà a circa 10,8 mld di dollari nel 2021. Inoltre, secondo uno studio dell’Unctad, nel 2019 l’Ue ha intercettato 2,7 mld di dollari dei 21 derivanti dalla deviazione delle importazioni statunitensi verso altri paesi.
Solo quest’ultimo fattore avrebbe un effetto sulla bilancia commerciale dell’Ue abbastanza irrisorio, con una diminuzione dello 0,14% sull’export. Tuttavia se ai 2,7 mld aggiungiamo il calo dell’export verso la Cina, la diminuzione dell’export Ue ammonterebbe allo 0,70% annuo nel 2021.
Un numero importante, in virtù del fatto che le conseguenze del calo colpiranno prevalentemente l’industria manifatturiera dei macchinari, velivoli e veicoli, con un –28% nell’industria dei velivoli. Alle conseguenze dirette della nuova intesa, si aggiunge il timore dei molti che credono che l’Europa potrebbe finire nel mirino di Trump: già nel novembre dello scorso anno il presidente aveva annunciato aliquote del 25% sull’esportazione di automobili europee in Usa, non entrate in vigore finora.
Quali saranno i veri effetti di questo accordo è quindi ancora da scoprire.
L’unica certezza appare essere la piccola vittoria politica di Trump, che a dieci mesi dalle elezioni riesce a firmare una prima tregua alla guerra dei dazi, nello stesso giorno in cui la Camera dei rappresentanti si apprestava ad inviare gli articoli del suo impeachment al Senato.