Articolo pubblicato su Il Sole24ORE

Il problema della produttività in Italia
La produttività è un po’ il motore delle economie. Essere più produttivi significa saper raggiungere un maggior output dato un certo input o, equivalentemente, utilizzare meno input per ottenere lo stesso output. Ciò spiega il perché sia spesso in cima alle priorità dei dossier dei ministri dello sviluppo e il perché se ne parli spesso nei media. Il caso italiano fa scuola, purtroppo in senso negativo, con una condizione stagnante dalla metà degli anni ’90. Misurare le produttività è complesso, visto la miriade di fattori che possono influenzarla (ne avevamo parlato precedentemente). Qui vogliamo concentrarci su un fattore troppo spesso dimenticato: la qualità del management.

Crescere nel pubblico e nel privato è possibile
Due interessanti studi, pubblicati da Alessandra Fenizia ed Edward Lazear, ci aiutano a fare luce sulla produttività nel settore pubblico e nel privato. Le ricerche convergono allo stesso risultato: un buon manager può aumentare la produttività dell’ufficio di circa il 10%. Ciò può essere spiegato non solo dalla maggiore motivazione e dalla migliore gestione delle risorse umane, ma anche dal fatto che i sottoposti a un manager di qualità sono meno propensi a lasciare l’organizzazione, portando così a frutto le risorse investite nella formazione. La priorità dovrebbe quindi essere la ricerca di talenti, assegnando loro posti di rilievo. Alcuni studi evidenziano una chiara relazione tra la qualità delle pratiche manageriali e la produttività. Un management competente è quindi una via essenziale per ritornare a crescere. Ma chi sono i manager italiani?

I manager: questi sconosciuti
I manager in Italia sono circa 500.000, prevalentemente uomini (circa 70%) e avanti con gli anni. Solo il 30% ha meno di 44 anni. Due soggetti su tre lavorano al Nord, prevalentemente in aziende di grandi dimensioni. Insomma, pochi giovani e con una presenza minima nella micro e piccola impresa (2,5% e 5,2% sul totale degli occupati). Il cambiamento tecnologico, l’internazionalizzazione delle imprese italiane e la crisi economica hanno avuto un impatto sulle competenze richieste ai manager. Secondo lo studio Osservatorio Manageriale le tre competenze più importanti per il prossimo triennio riguardano la gestione del cambiamento, la leadership e la digitalizzazione. Specialmente in quest’ultimo campo, soggetti più giovani potrebbero aumentare il bagaglio di conoscenze delle imprese italiane. Ma come misurare la qualità del management? Un sondaggio del World Management Survey nel settore manifatturiero consente di rilevare questa dimensione sfuggente grazie a 18 indicatori. Guardando alla media del punteggio generale (tra 1 e 5), i manager italiani si difendono, sebbene ci sia ancora un gap con Stati Uniti, Germania, Francia. Guarda caso paesi dove la produttività è aumentata maggiormente.

La qualità che conta
Un management di qualità ha quindi un impatto tangibile sulla produttività. Il World Management Survey evidenzia che la minore produttività delle imprese italiane sia imputabile alla minore qualità dei processi manageriali. Qualità che in Italia sembra limitata da due principali fattori: il familismo e l’egemonia della micro-impresa.

Per quanto riguarda il primo fattore, Pellegrino e Zingales in una ricerca datata ottobre 2017, evidenziano il fallimento delle imprese nostrane nello sfruttare appieno la rivoluzione tecnologica e delle comunicazioni degli ultimi decenni. Mentre Internet cresceva e il mondo si digitalizzava, le nostre aziende sono rimaste un passo indietro. Le cause? Secondo il loro studio, il fattore determinante è l’assenza di meritocrazia nella selezione e promozione dei manager. Il familismo e il clientelismo sono le due piaghe che portano le aziende ad assumere collaboratori più per legami personali che per merito o qualità, e ciò contribuisce a deprimere l’innovazione. Secondo un report Federmanager, in Italia infatti in quasi il 70% delle imprese familiari l’intero management è espressione della famiglia; mentre secondo un’indagine EFIGE il livello di meritocrazia nelle imprese italiane ci colloca nelle ultime posizioni. L’adozione di nuove tecnologie dovrebbe passare per le mani di un management competente, capace di individuare i principali trend del settore e di modificare l’organizzazione di conseguenza.

La qualità del management è ancor più incisiva nel contesto dell’imprenditoria italiana, viste le minori risorse disponibili e una maggiore concorrenza internazionale sofferta dalle nostre piccole medie imprese (Pmi). In Italia, infatti, il 95% delle aziende ha meno di 10 dipendenti: realtà dove spesso il manager coincide con il proprietario e dove le decisioni vengono prese in modo gerarchico. Secondo il rapporto Federmanager la qualità del management è direttamente proporzionale alla dimensione, in quanto l’impiego di figure specializzate e formate è giustificato in contesti più grandi e con maggiori risorse. E le eccellenze italiane? Secondo l’OECD, solo lo 0,5% delle Pmi sono particolarmente competitive. Poche eccellenze che non bastano a trainare l’economia nazionale.

Tornare a crescere
Come tornare a crescere? Due parole chiave: meritocrazia e formazione. In un mondo dove il cambiamento è all’ordine del giorno, relegare le decisioni a soggetti impreparati o incapaci di gestire un’organizzazione significa condannare il paese alla stagnazione. Aumentare la meritocrazia richiede un cambiamento della cultura nazionale nel lungo periodo. Come incentivarlo? Con azioni che creino un contesto adeguato allo spontaneo sviluppo della meritocrazia. Alcuni degli elementi su cui lavorare sono la trasparenza delle istituzioni, della pubblica amministrazione e delle informazioni aziendali, ma anche la certezza e velocità del diritto. Ma per crescere occorre disporre delle conoscenze necessarie ad affrontare il cambiamento. In Italia, solo il 29% delle Pmi fornisce formazione professionale continua, una delle percentuali più basse dell’UE. Secondo uno studio OCSE la formazione manageriale è una delle principali leve per aumentare la produttività nelle Pmi, soprattutto nei settori tecnici o innovativi. Qualcosa è già stato fatto: detrazione fiscale fino a un massimo di 300.000 euro per la formazione dei dipendenti (piano Industria 4.0) e un voucher digitalizzazione fino a un massimo di 10.000 euro per interventi di ammodernamento tecnologico o formazione. Entrambi sono però interventi temporanei, legati alle disponibilità finanziarie dello Stato e spesso non utilizzati dalle Pmi per complessità amministrativa. Prendendo spunto da quanto fatto in Korea, si dovrebbero creare dei consorzi di formazione legati ai già esistenti distretti industriali italiani. Strutture permanenti, locali, con lo scopo di erogare servizi di formazione continua ai membri, raggiungendo economie di scala per i processi formativi e amministrativi. Strutture che incentivino la creazione di relazioni, scambi di know-how e la condivisione, fattori essenziali per garantire una crescita condivisa e inclusiva di tutti gli aderenti nel lungo periodo.

In secondo luogo occorre intervenire sulla dimensione delle imprese italiane. Le microimprese non dispongono delle risorse (e spesso della necessità) di figure specializzate, le stesse persone che potrebbero però contribuire alla loro crescita favorendo l’ingresso di nuovi manager. È un cane che si morde la coda. Cosa fare allora? Incentivare il ricorso a consulenti esterni per le micro e piccole imprese, per esempio tramite degli sgravi fiscali per i costi sostenuti, garantirebbe l’apporto di conoscenze specifiche, senza richiedere cambiamenti strutturali.
In un paese dove si assume ancora per favori o legami familiari, si rischia di percepire la crescita come uno scomodo cambiamento. Non possiamo permetterci di estendere il successo di poche realtà d’eccellenza all’intero paese, né possiamo cullarci nel mito della nostra superiore inventiva o creatività. Come far ripartire la locomotiva della crescita? Basterebbe dare la possibilità a chi comprende il cambiamento odierno di prendere decisioni.

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