Articolo pubblicato su Econopoly – Il Sole24Ore
Il nuovo timoniere è pronto: a partire dal 1 novembre, Christine Lagarde sarà a capo della Banca Centrale Europea (Bce), succedendo a Mario Draghi. Data la delicata congiuntura economica internazionale, è opportuno domandarsi quale situazione erediterà dal suo predecessore e quali scenari futuri si prospettano per la Bce e l’Eurozona.
Draghi e le politiche contro corrente
In risposta alle crisi economico-finanziarie che hanno afflitto l’euro negli anni passati, la politica monetaria ha svolto un ruolo chiave nella stabilizzazione e nel rilancio dell’Eurozona. La BCE, sotto la guida di Draghi, ha rinnovato i propri strumenti monetari (TLTRO, OMT, ForwardGuidance), implementato programmi di allentamento quantitativo (APP, più noti come Quantitative Easing) e adottato bassi tassi di interesse, persino negativi. Queste misure non convenzionali hanno contribuito a risollevare i mercati finanziari europei da una situazione di profonda crisi e hanno aiutato la progressiva ripresa dell’economia reale, con importanti ricadute in termini occupazionali e di crescita degli investimenti.
Tuttavia, dalla seconda metà del 2018 i segnali di un rallentamento economico sono diventati più evidenti. L’Eurozona – assai vulnerabile agli shock esterni a causa della sua crescente dipendenza dalle esportazioni – è stata pesantemente colpita dalle tensioni commerciali globali. L’inflazione core – ovvero l’aumento medio dei prezzi al netto di quelli di energia e beni alimentari che sono fortemente volatili – risulta ancora bloccata all’1% circa e gli indicatori congiunturali prevedono una debole crescita economica anche nella seconda metà del 2019.
In tale scenario, le ripetute decisioni di Francoforte di prolungare la durata della politica monetaria espansiva sono andate ad incoraggiare l’accumulo di rischi unilaterali nel sistema finanziario. Infatti, l’allentamento quantitativo provoca significative distorsioni nei mercati, tra cui una progressiva riduzione dell’attività di negoziazione in quelli obbligazionari, una forte diminuzione della liquidità (con una conseguente mitigazione della volatilità dei rendimenti) e una moderazione degli spread di credito. Come effetto collaterale di queste distorsioni, l’affannosa ricerca di rendimento da parte degli investitori potrebbe nel lungo termine far aumentare artificialmente il prezzo degli asset, tanto da generare una brusca correzione del mercato o addirittura l’apertura di una crisi profonda.
La trappola del QE infinito
Quindi, nell’attuale contesto, i vantaggi di tassi bassi e ingenti acquisti di asset sono compensati da una serie di effetti collaterali che riducono gradualmente il beneficio netto dell’allentamento monetario, fino a rischiare di oscurarlo del tutto. Tale dinamica genera una “trappola del QE infinito” in cui il sistema finanziario necessita di un permanente e sempre maggior stimolo monetario.
Nel corso di una prolungata azione espansiva, vi è il pericolo che una distorsione dei prezzi degli strumenti finanziari possa portare allo scoppio di bolle speculative. Ci siamo già passati. In successione, questa distorsione si ripercuote anche sulla distribuzione della ricchezza: una prolungata politica monetaria espansiva può infatti causare un aumento dei prezzi degli asset e dei beni di consumo. Il primo possibile effetto redistributivo di questi cambiamenti è che le famiglie a basso reddito, le quali dipendono principalmente dai salari e detengono la propria ricchezza in forme perlopiù liquide, vedano erodersi il proprio potere d’acquisto a causa dell’inflazione. Se, tuttavia, questo rischio può apparire contenuto data la bassa inflazione osservata negli ultimi anni in Europa, il significativo aumento dei prezzi degli asset finanziari ha giovato coloro che li detengono maggiormente, ossia le classi più abbienti. Ciononostante, il dibattito sul rapporto tra politica monetaria e disuguaglianza è ancora aperto poiché gli effetti potrebbero variare nel tempo, a seconda di fattori come lo stato del ciclo economico, il tipo di shock che la politica monetaria deve fronteggiare, le politiche di redistribuzione vigenti e la quota di reddito da lavoro dei diversi paesi.
Un altro effetto deleterio di un’espansione prolungata è quello sui bilanci degli istituti di credito. Nel tempo, bassi tassi di interesse possono danneggiare la salute degli intermediari creditizi, riducendo la loro redditività e ostacolando l’efficiente allocazione del capitale. Infatti, condizioni di credito ampiamente favorevoli consentono anche alle imprese più deboli di accedere al credito e rimanere solvibili. Ciò rischia di inibire la concorrenza, favorendo aziende già esistenti a discapito di nuove imprese innovative. L’errata allocazione di risorse che ne consegue, potrebbe incoraggiare comportamenti oligopolistici, danneggiando la concorrenza intersettoriale. Il risultato finale? Una progressiva diminuzione della produttività.
Sempre maggiore evidenza empirica suggerisce infine che bassi tassi di interessi e massicci acquisti di asset finanziari da parte delle banche centrali hanno un ridotto livello di efficacia nel tempo. La Banca dei Regolamenti Internazionali, che è sostanzialmente la banca delle banche centrali, sostiene da tempo che la politica monetaria può esser meno efficace nel dare impulso alla domanda e alla produzione aggregate durante periodi di tassi di interesse costantemente bassi.
Uscire dalla trappola
Se la politica di allentamento quantitativo con il mutare del quadro congiunturale è diventata meno efficace, perché i banchieri centrali continuano a farne uso? Sinteticamente: tale policy è l’unica disponibile – al momento. Una risposta più complessa prende invece in analisi le politiche fiscali e le riforme che sarebbero necessarie per sfuggire alla “trappola del QE Infinito”. Come più volte sottolineato dal presidente Draghi, la politica monetaria non potrà più esser l’unica risorsa con funzione anticiclica, ma dovrà esser supportata da una più attiva politica fiscale. Finché i governi degli stati membri non adotteranno politiche strutturali e azioni fiscali volte a supportare l’attuale politica monetaria, la BCE non potrà che continuare ad implementare misure monetarie accomodanti. Per quanto in riduzione, i benefici continuano a superare i costi.
Da una parte, i paesi con spazio fiscale dovrebbero investire in attività che favoriscono la crescita. D’altra parte, i paesi con debito pubblico elevato dovrebbero seguire un prudente percorso di graduale aggiustamento fiscale, anche se la crescita sta rallentando, per ridurre la propria vulnerabilità. Va rimarcato che queste politiche sarebbero funzionali a liberare l’Eurozona dalla trappola in cui è caduta, non a sostenere la crescita nel lungo periodo. Allo stesso tempo, le riforme strutturali – volte ad aumentare la produttività favorendo innovazione, competizione ed un’allocazione efficiente delle risorse – hanno bisogno nel breve termine di un adeguato supporto fiscale e monetario.
Pertanto, nel caso di una recessione economica a livello comunitario, sarebbe necessario un maggior stimolo fiscale, con una risposta differenziata in linea con le circostanze specifiche del paese. Tale allentamento fiscale rafforzerebbe l’impatto della politica monetaria accomodante. Ma questo, ad oggi, non sta accadendo. Se la decisione finale spetta ai governi nazionali, a Lagarde spetterà comunque un’opera di attenta persuasione e monitoraggio. Un compito arduo, da perseguire – seguendo la lezione di Draghi – con conoscenza, coraggio ed umiltà.