Articolo pubblicato sull’Huffingtonpost
Da qualche settimana se ne sente parlare sempre di più. Citati a più riprese dal premier Conte, i corridoi umanitari fanno capolino nel dibattito pubblico nazionale. Finalmente, verrebbe da dire, visto che gli operatori del mondo della cooperazione e dell’aiuto umanitario – inclusi rappresentanti istituzionali come la vice-ministra Del Re – fanno pressione per la loro adozione su scala europea da quasi due anni. Regolarmente presenti invece nel dibattito pubblico sono i rimpatri, comunemente identificati con le espulsioni quando nella realtà possono essere forzati o volontari, assistiti o meno. Ma qual è la vera portata di questi strumenti?
Corridoi umanitari: vocazione emergenziale ma potenziale strutturale
Nel dicembre 2015 la comunità di Sant’Egidio e le Chiese protestanti hanno firmato un primo protocollo con il Ministero degli interni e quello degli esteri per far arrivare in Italia 1000 cittadini siriani bloccati nei campi per rifugiati in Libano. Lo strumento scelto era il corridoio umanitario, che consiste in una preselezione dei potenziali richiedenti asilo e protezione umanitaria, svolta direttamente nel paese di transito e successivamente, previa verifica da parte del ministero degli Interni, nel rilascio di visti temporanei umanitari validi solo per il paese che ha autorizzato l’ingresso.
Il corridoio umanitario permette quindi l’arrivo sicuro dei richiedenti asilo per via aerea e la loro presa in carico per un processo d’integrazione che comincia già durante l’attesa dell’esito delle procedure per l’assegnazione di status di rifugiato. Uno strumento utile nel momento in cui – a causa della chiusura de facto delle vie legali di ingresso – sempre più persone si trovano costrette a percorrere la via dell’immigrazione irregolare senza alcuna garanzia all’arrivo, non muovendosi solo per motivi riconducibili allo status di rifugiato, come abbiamo scritto nel primo approfondimento pubblicato da La Stampa.
Ad oggi sono 2.669 gli arrivi in Europa tramite questa via sicura e legale, di cui l’80% in Italia. Invocare i corridoi umanitari unicamente per svuotare i campi in Libia, però, significa proporre l’ennesima soluzione tampone e dimenticare che secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) le morti nel deserto del Sahara sono almeno il doppio di quelle nel Mediterraneo. Bisogna quindi introdurli in particolare nei paesi di partenza e di transito, per evitare che i migranti ci arrivino in Libia. L’introduzione dei visti umanitari, richiesta a dicembre 2018 dal Parlamento europeo alla Commissione, permetterebbe di affrontare la situazione in altri paesi di transito come Niger e Marocco ma anche in paesi di origine come Mali e Nigeria, ed è motivata alla luce del dato secondo cui il 90% di coloro che hanno ottenuto lo status di rifugiato in Europa sono arrivati nel continente per vie irregolari.
Nel biennio 2015-2016, i flussi dal Mali sono duplicati, quelli dal Gambia triplicati e sono stati quasi 20 mila gli arrivi dalla Nigeria. Questi sono stati gli anni di maggiore afflusso ma anche di notevole instabilità legata alle elezioni in Gambia, alla continuazione delle violenze jihadiste e separatiste iniziate nel 2012 in Mali e all’intensificazione degli attacchi di Boko Haram nel nord della Nigeria.
Il riconoscimento dello status di rifugiato per gli immigrati provenienti da questi tre paesi è divenuto quindi relativamente più probabile e facile da accertare. Fossero esistiti i visti umanitari richiedibili nei paesi di origine, o corridoi umanitari dai paesi di transito, si sarebbe evitata la creazione di un vero e proprio settore economico intorno alla tratta dei migranti.
Fondamentali per uscire dall’impasse attuale sulla situazione dei migranti bloccati nei paesi di transito (Libia, Niger, Marocco), i corridoi umanitari potrebbero quindi rappresentare più di una soluzione una tantum nel breve periodo, se attuati anche nei paesi di origine e di transito. Il visto umanitario, se istituzionalizzato, può infatti essere un primo tassello per politiche migratorie che abbiano un orizzonte a medio-lungo termine e uno strumento di gestione dei flussi dignitoso per i migranti, anche in situazioni di emergenza.
Rimpatri: ambizione di scalabilità ma limiti di efficacia
Sorte inversa è quella dei rimpatri, ben più conosciuti dall’opinione pubblica e spesso presentati come una soluzione facilmente applicabile e riservata agli irregolari già presenti sul territorio italiano. Questo ha portato all’identificazione, nell’immaginario comune, del termine rimpatrio con l’espulsione forzata. Quali sono in realtà i numeri e i tipi di rimpatrio?
Come si può vedere dai dati nella figura 1, il numero di rimpatri verso l’Africa sub-sahariana negli ultimi dieci anni appare più o meno costante, fra le 300 e le 600 unità, mentre molto più variabile è il numero di ordini di espulsione emessi. La percentuale dei rimpatri forzati verso l’Africa sub-sahariana effettivamente eseguiti sul totale degli ordini di espulsione è infatti molto bassa, tra il 4% ed il 12%. Paradossalmente, la percentuale di rimpatri eseguiti è più bassa negli anni in cui vengono emessi più ordini di espulsione, mentre il supporto politico ai rimpatri sembra essere piuttosto ininfluente sulla probabilità che vengano effettivamente eseguiti.
La soluzione dell’espulsione forzata è di complicata attuazione per via dei costi diretti (in media, almeno 5800 € per rimpatrio) e delle difficoltà legali legate alla mancanza di accordi con i paesi Sub-Sahariani di destinazione dei rimpatriati (unica eccezione, la Nigeria).
La figura 2 mostra, invece, che circa 1 rimpatrio effettuato su 4 è di natura volontaria e circa 1 su 10 è assistito. Si definiscono volontari i rimpatri effettuati in autonomia dagli immigrati, ad esempio entro 30 giorni dopo aver ricevuto un ordine di espulsione. Una modalità più recente è invece il rimpatrio volontario assistito, accessibile sia per gli immigrati regolarmente residenti in Italia sia per i migranti in situazione irregolare. L’assistenza consiste nella presa in carico di una fase preparatoria pre-partenza, dei costi di rientro e del supporto al re-inserimento socioeconomico nel paese di origine. Il costo di questo tipo di rimpatri è inferiore a quello dei rimpatri forzati, circa 4000-4500€ a persona, ma anche in questo caso le difficoltà implementative restano molte.
I rimpatri non sembrano quindi essere una soluzione strutturale scalabile viste le difficoltà sia a livello di efficienza – dati i costi molto alti – che di efficacia – in termini di re-inserimento socioeconomico effettivo al rientro. Vi è inoltre uno sconfinamento da parte del Ministero dell’interno, competente per l’emissione degli ordini di espulsione e l’organizzazione dei rimpatri forzati, in un ambito di competenza del Ministero degli esteri, ovvero la gestione di programmi di re-inserimento nel paese di origine, con tutte le difficoltà burocratiche che ne conseguono. Esiste però una funzione, fondamentale e urgente, per i rimpatri assistiti, ma non dall’Italia: far rientrare nei paesi di origine i migranti che già si trovano nei paesi di transito ma che non passano il primo screening come potenziali rifugiati. In affiancamento ai corridoi umanitari, i rimpatri assistiti potrebbero permettere, infatti, di liberare le persone bloccate lungo la rotta migratoria ed evitare di far arrivare in Europa persone che, quasi certamente, si vedranno rifiutata la richiesta di asilo e protezione umanitaria, non prima di aver passato tra uno e due anni nel limbo dell’accoglienza.
Conclusioni
Corridoi umanitari e rimpatri assistiti hanno il potenziale di liberare le persone bloccate nei paesi di transito come Libia e Niger e mettere così fine agli unici passaggi da cui passa la vera emergenza migratoria, ovvero la tratta di persone e le conseguenti morti e torture tra Sahara e Mediterraneo. Con i corridoi umanitari verrebbero portati in Europa coloro che potenzialmente hanno diritto alla protezione umanitaria mentre con i rimpatri assistiti rientrerebbero nel paese di origine coloro che, non avendo i requisiti per lo status di rifugiato, rischiano di rimanere bloccati nel limbo dell’accoglienza per essere rimpatriati qualche mese più tardi.
Inoltre, in un’ottica di medio-lungo termine, l’istituzione dei visti umanitari europei richiedibili direttamente nei paesi di origine o quelli limitrofi appare invece la soluzione più efficace per impedire l’apertura di nuove rotte della tratta, con l’ulteriore vantaggio della tracciabilità degli ingressi e di un più semplice rimpatrio, anche senza accordi, nel caso in cui lo status di rifugiato non venga riconosciuto.