Articolo pubblicato su Business Insider

Per approfondire, abbiamo scritto un report intitolato “20 anni di Euro, bilanci e prospettive”.

“Lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più”. La promessa di Romano Prodi sui meriti dell’euro riemerge ancora, sporadicamente, nel dibattito sugli effetti della moneta unica, perlopiù per essere smentita. A venti anni dall’adozione della moneta, è possibile tirare un bilancio di quanto è avvenuto nell’Eurozona e tratteggiare il futuro della moneta comune.

Cosa funziona

Primo: l’euro ha abbassato l’inflazione. Sebbene permanga un divario considerevole tra inflazione percepita ed effettiva, questa risulta essersi ridotta dall’ingresso nell’Eurozona rispetto alla media storica italiana del 5,5%, per una media dell’1,7% dal ’99, come mostra la figura 1. Il mandato della Bce sembra esser stato raggiunto.

Figura 1 – inflazione primaria in Italia (percentuale)

Inflazione Italia

Fonte: Federal Reserve Economic Data

Secondo: l’Italia ha beneficiato di tassi di interesse molto più bassi rispetto al periodo precedente all’entrata, come indica la figura 2. Ciò ha permesso di ridimensionare l’onere del debito pubblico per i titoli di nuova emissione con contenimento della spesa per interessi.

Figura 2 – rendimento storico dei Bot con maturità 12 mesi

Rendimento Bot 12 mesi

Fonte: Ministero dell’economia

Terzo: l’Euro piace. Uno degli ultimi sondaggi di Eurobarometro (novembre 2018) mostra come il supporto per la moneta unica sia oggi al 75%, massico storico (era sceso fino al 62% negli anni della crisi). Parallelamente, nonostante la crescita di movimenti sovranisti, le opinioni contrarie non sono mai state così basse: 20%.

Cosa non funziona

Parafrasando Einstein, l’Europa non è un’area valutaria ottimale, ma non lo sapeva, ed è diventata un’unione monetaria lo stesso. In particolare, seguendo i requisiti individuati da Krugman e Obstfeld (2003), soffriamo di un’inadeguata mobilità della forza lavoro e di un insufficiente sistema di trasferimenti fiscali. Questo porta l’Eurozona a essere particolarmente vulnerabile a shock asimmetrici, che cioè colpiscono in modo differente i vari paesi membri. Data la difficoltà di incedere sulla mobilità della forza lavoro, soprattutto nel breve-medio termine, ci si dovrebbe concentrare sui trasferimenti fiscali da stato a stato. Ciò richiederebbe una maggiore solidarietà tra membri (dei creditori verso i debitori), spesso venuta a mancare nel ventennio dell’Euro. Ma procediamo con ordine.

Delegando alla Bce la politica monetaria, gli stati membri hanno perso due strumenti di politica economica molto importanti: svalutazione e inflazione. Le conseguenze di tali rinunce incidono tangibilmente sulla politica economica dei membri. Infatti, gli studiosi Reinhart e Rogoff (2009) hanno mostrato come un aumento significativo dei prezzi abbassa il valore nominale dello stock di debito pubblico, rendendolo più gestibile. Ciò non avviene senza costi: i salari e i risparmi reali delle persone vengono così ridotti. Le svalutazioni competitive, particolarmente usate in passato per gestire la bilancia commerciale in caso di esportazioni nette negative, possono portare a una ripresa rapida da una crisi; tuttavia, i suoi benefici sono perlopiù limitati al breve periodo (vedi il caso del Giappone).

Ai paesi rimane pertanto la sola politica fiscale per reagire agli shock asimmetrici. La stessa politica fiscale è stata però sensibilmente costretta entro regole e limiti di spesa (Sgp, Fiscal Compact), frutto di un compromesso instabile e posto spesso in discussione.

Il nocciolo del problema

I membri dell’Eurozona devono mirare ad avere un debito sostenibile al fine di non riversare sui partner europei i costi inflattivi della propria politica fiscale e di non essere minaccia di rischio sistemico per l’intera area euro. In mancanza di strumenti monetari, però, i paesi possono ricorrere solamente a un uso oculato della leva fiscale per attuare politiche economiche. Vincolati dalla sostenibilità del debito, non hanno sufficiente spazio per rimodulare la propria politica fiscale per attuare adeguate politiche anticicliche di fronte a shock asimmetrici, ovvero il vulnus strutturale dell’Eurozona.

L’euro è stato disegnato in maniera imperfetta. L’unione monetaria avrebbe dovuto essere il coronamento dell’unione bancaria, fiscale, politica. Ma la mancanza di fiducia tra paesi creditori del Nord e debitori del Sud ha portato a rallentamenti della tabella di marcia e compromessi temporanei piuttosto che soluzioni a somma positiva; ciò è dovuto soprattutto alla natura inter-governativa delle negoziazioni (Delatte, 2018).

Una possibile soluzione

L’Europa deve limitare la divisione tra membri del nord e del sud per sopravvivere. Quindi è necessario procedere con l’integrazione bancaria, fiscale e del mercato di capitali, sul modello degli Stati Uniti, dove l’unione su queste tre dimensioni garantisce risposte federali adeguate agli shock (Heijdra et al., 2018).

L’Unione Europea può quindi agire su fronti multipli, intervenendo particolarmente in materia di unione bancaria, poiché gli istituti di credito sono acquirenti fondamentali dei debiti pubblici. Questa si fonda su tre pilastri: il meccanismo di vigilanza unico (Ssm), il meccanismo unico di risoluzione delle crisi (Srm) e il fondo comune di garanzia sui depositi (Srf), dei quali i primi due già operativi. Bisogna rompere il legame tra sistemi bancari e rispettivo debito sovrano nazionale per rendere gli istituti finanziari più solidi. Un budget comune a garanzia delle crisi, con sufficiente disponibilità finanziaria potrebbe risolvere definitivamente il problema degli shock asimmetrici. E ancora, definire regole più chiare e incentivi meglio disegnati per arrivare a livelli contenuti di debito pubblico sarebbe una riforma a costo zero. Un Eurobond permetterebbe agli stati soggetti a shock negativi di attuare politiche anticicliche senza i costi dello spread.
Queste proposte sono presenti da anni nei dossier dell’Ecofin, che tuttavia non riesce a sbloccare l’intricato sistema di veti dei singoli paesi ed è costretto ad avanzare lentamente, con esitazione.

Conclusioni: come aggirare la paralisi politica

Riassumendo, è possibile paragonare lo stato attuale delle negoziazioni come un dilemma del prigioniero. Sebbene il gioco presenti una soluzione più efficiente delle altre, posto che le due parti (creditori del nord e debitori del sud) collaborino, le loro strategie portano al risultato peggiore, che minimizza il welfare di entrambi a causa della mancanza di reciproca fiducia.

Ciò è dovuto all’architettura istituzionale. Il Parlamento europeo, l’organo direttamente eletto dai cittadini dell’Unione, non dispone di iniziativa legislativa. È il Consiglio europeo, dove invece si proiettano gli interessi dei singoli stati, a dettare l’agenda politica. Ciò determina una maggiore inaccessibilità percepita dal cittadino alle politiche europee: il cosiddetto “deficit democratico”. Ogni processo di riforma richiede, al di là delle competenze, il consenso. Una maggiore centralità del Parlamento europeo permetterebbe di bilanciare le forze sbloccando il processo di riforma.

Vale la pena sottolineare che, al contrario della narrativa diffusa, i sondaggi ci dicono che il prossimo parlamento sarà ancora marcatamente europeista: se è plausibile che socialdemocratici e popolari non riusciranno a formare una maggioranza, essi saranno comunque affiancati da liberali e verdi. Un parlamento più centrale non sarebbe in paralisi.

C’è inoltre la grande opportunità della riallocazione dei seggi parlamentari britannici: se la Brexit avesse luogo, i loro 73 posti sarebbero in parte riassegnati ad alcuni tra i paesi membri e in parte andrebbero destinati a futuri membri dell’Unione. La proposta di destinare quei seggi a un collegio elettorale paneuropeo, emersa all’indomani del referendum sulla Brexit, sembra esser stata abbandonata. Il posticipo dell’uscita dei britannici, invece, potrebbe essere l’occasione per avviare nei prossimi mesi una campagna politica comunitaria per giungere quindi a un secondo voto (pan)europeo, a ottobre, per i 73 seggi. Spostare il dibattito politico dalla dimensione nazionale a quella comunitaria è necessario per far sì che nei policymaker si sviluppi un senso di governance condivisa dell’Unione.

Storicamente, le elezioni europee testimoniano un’affluenza più bassa delle politiche nei singoli stati. Noi suggeriamo, come luogo di aggregazione e di ritrovata unità europea, proprio le urne del 26 maggio: mostrare che vi è una domanda per un’Europa più politica, più audace. È ora di procedere nel cammino iniziato decenni fa, abbiamo esitato troppo a lungo.

Redazione

Author Redazione

More posts by Redazione