Articolo pubblicato su lavoce.info
L’Italia è molto indietro in materia di formazione professionale e le politiche attive rimangono improntate più alla ricerca del lavoro che alla valorizzazione del capitale umano. Tre proposte per far sì che la fase 2 sia all’insegna degli investimenti in competenze.
Enrico Moretti, membro della task force per la riapertura, ha recentemente definito la formazione sul lavoro una priorità. Siamo d’accordo con lui e questa catastrofe può darci modo di accorciare i tempi. Primo, la formazione sembra ben conciliarsi con la necessità di tenere a casa parte della forza lavoro: il distance learning è una pratica oramai diffusa la cui efficacia va migliorando, pur con alcune limitazioni. Secondo, è probabile che il telelavoro garantisca ai lavoratori maggiore flessibilità e tempo libero e questo ci concede una finestra di opportunità in cui il principale costo della formazione – quello in termini di tempo da dedicarle – risulta meno elevato. Terzo, la formazione potrebbe contribuire a comprendere le nuove modalità di lavoro in sicurezza e favorire quella trasformazione digitale che il Covid-19 ha reso non rimandabile.
Come sottolinea l’Ocse, l’Italia è drammaticamente indietro riguardo alle competenze dei lavoratori.
Ciononostante, la partecipazione alla formazione nel nostro paese è la metà della media Ocse e le imprese dedicano alla formazione formale solo lo 0,3 per cento del monte salari, contro l’1 per cento della Francia o il 2,5 per cento del Regno Unito. Passando dalle politiche alla politica, per ritrovare la parola “formazione” in qualche dibattito bisogna risalire al Jobs act, riforma che comunque lasciò incomplete le politiche attive. Ancora oggi l’Anpal resta un’agenzia orfana, da qualche settimana abbandonata anche dal presidente: nonostante il rinnovato interesse in seguito all’approvazione del reddito di cittadinanza, la maggior parte delle risorse è destinata a forme di assistenza alla ricerca di lavoro (con i famosi navigator) piuttosto che a interventi che puntino a migliorare le competenze. Tali interventi sono infatti costosi e hanno ritorni incerti e difficili da misurare ma sono – oltre che necessari – possibili da realizzare, almeno guardando alle buone pratiche estere (per esempio con certificazioni e valutazioni, per evitare che diventi un mercato di “pezzi di carta”).
Tre proposte per la fase 2
Proviamo a proporre quindi alcuni strumenti per investire in formazione, servendoci per comodità del paragone con la Francia:
1) Conto personale formazione. Questo strumento consiste in un credito annuale per ogni lavoratore da spendere in corsi riconosciuti dallo stato o dalle associazioni sindacali e datoriali. In Francia il Compte personnel de formation, introdotto dal 2014, garantisce a ogni lavoratore 500 euro all’anno da spendere in formazione, anche online – meno costosa e più scalabile – o durante l’orario di lavoro (in questo caso, concordandola con il datore di lavoro), tramite una semplice app. Nel 2018 tale misura è costata 750 milioni di euro, gestiti dalla cassa depositi e prestiti francese. Nel nostro paese non sono mancati gli esperimenti: sono assimilabili alla normativa vigente in Francia il “diritto soggettivo alla formazione” dei metalmeccanici o il “codice personale di cittadinanza attiva” nascosto nei meandri dei 100 punti del programma Pd redatti da Tommaso Nannicini. Si potrebbe pensare a una sperimentazione finanziata dallo stato con una parte minima (500 milioni) delle risorse per la ripresa per poi provare a renderla strutturale aumentando la contribuzione dalle imprese, limando altre imposizioni come è stato fatto con i “contributi sanificazione” nel Cura Italia.
2) Politiche attive del lavoro, con particolare attenzione sulla formazione dei disoccupati. Un prerequisito per l’azione è un rafforzamento di Anpal, che richiederebbe una mediazione con le regioni. Come per la sanità, la competenza per le politiche attive è regionale, uno schema difficile da giustificare in termini di equità o efficienza e che la riforma costituzionale sottoposta a referendum nel 2016 aveva provato a cambiare. Dopo la pandemia da Covid-19 si aprirà una discussione su questa ripartizione di competenze, in cui sarà importante ricordarci anche delle politiche attive. In Francia negli ultimi anni sono stati inaugurati vari Piani di investimento nelle competenze (l’ultimo da 15 miliardi), dedicati a finanziare progetti di formazione per i disoccupati, proposti allo stato dalle regioni – spinte così a sviluppare le proprie capacità tecniche – prevedendo un’opportuna valutazione. Le risorse per un piano simile, anche in scala minore, potrebbero venire da parte di quelle impiegate per i navigator.
3) Incentivi (o obblighi) alla formazione nelle aziende. Una misura del genere sarebbe giustificata dai problemi (come le asimmetrie informative, i vincoli di credito o il rischio che i concorrenti “rubino” le risorse già formate) che potrebbero portare le aziende a sotto-investire in formazione. In Francia fino al 2014 vigeva un obbligo di spesa in formazione del 2 per cento del monte salari per le aziende sopra i 10 dipendenti. Senza arrivare a queste vette, onerose per le aziende in questo momento, un’idea potrebbe essere condizionare parte dei 400 miliardi di garanzia ai prestiti a obiettivi di formazione (per esempio usando i fondi inter-professionali).
Per ripartire investendo sulle persone esistono proposte circostanziate e urgenti per cui questa crisi apre un’importante finestra di opportunità.
Articolo scritto da Francesco Filippucci frequenta il PhD alla Paris School of Economics con tesi sulla formazione professionale. È senior fellow del think tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo.