Articolo pubblicato per Econopoly – Il Sole24Ore
La segretaria al Tesoro americano Janet Yellen ha recentemente proposto una tassa minima globale sui profitti. L’annuncio, accolto positivamente dalle cancellerie europee, inclusa l’Italia, rispecchia la volontà di diversi paesi di limitare l’evasione e l’elusione fiscale.
Finora gli Stati Uniti erano stati contrari a misure di questo tipo. L’amministrazione Biden intende invece finanziare il nuovo piano per le infrastrutture alzando la tassa sui profitti dal 21 al 28%. Inoltre, per evitare di aumentare gli incentivi delle multinazionali ad eludere il fisco, Biden ha proposto di alzare dal 10.5 al 21% l’aliquota della tassa sul reddito di controllate straniere di società americane (tassa sul Gilti), che verrebbe ora calcolata paese per paese.
La proposta americana acquista dunque un doppio obiettivo: stabilire una tassa minima globale sui profitti delle aziende al 21% e rendere gli Usa un attore centrale negli accordi di tassazione multilaterali.
In cambio della tassa minima globale, Biden è disposto a mettere sul tavolo delle trattative l’istituzione di un nuovo modo di ripartire i profitti delle aziende multinazionali, permettendo al paese in cui le vendite sono effettuate di tassare una parte dei profitti, invece che esclusivamente al paese in cui i profitti sono registrati. Si tratta di un compromesso proposto dagli Stati Uniti in risposta alle digital tax di diversi paesi europei, che colpirebbero prevalentemente colossi digitali americani.
Evadere attraverso il profit-shifting
Il profit shifting è delle una delle pratiche principali usata dalle multinazionali per ridurre al minimo i contributi fiscali (anche a zero) nei paesi dove le tasse sulle società sono più elevate, pagandole invece nei paradisi fiscali.
Per semplificare, immaginate che una multinazionale sia composta da due società: la società A si trova in un paradiso fiscale (es. Bermuda) e la società B si trova in un paese con una corporate tax più alta (es. gli Stati Uniti).
Ci si aspetterebbe che ognuna di queste aziende paghi le imposte sui profitti guadagnati nei rispettivi paesi. Questa multinazionale, pero, ha a disposizione almeno tre canali per “spostare” i suoi profitti verso la compagnia A, nelle Bermuda: spostamento del debito, registrazione di beni immateriali (come il copyright) nei paradisi fiscali o un utilizzo strategico del transfer pricing (il prezzo a cui due società dello stesso gruppo si scambiano beni). Ognuno di questi canali crea un motivo per far pagare alla società B negli Usa qualcosa alla società A alle Bermuda, rispettivamente gli interessi su un prestito, i diritti d’autore o il prezzo di un input. Questi pagamenti vengono considerati come un costo per la società B, riducendo così il profitto negli Usa, e aumentandolo nel paradiso fiscale. Questi flussi di denaro non creano vere perdite alla multinazionale, visto che il denaro viene spostato tra società dello stesso gruppo, ma le permettono di trasferire artificialmente il profitto dichiarato nelle Bermuda, dove le tasse sulle società sono pari a zero.
Anche l’Italia potrebbe trarne beneficio
Riuscire a cooperare a livello internazionale per limitare questo fenomeno avrebbe un enorme impatto sulle casse dello Stato dei paesi che ne soffrono.
Nonostante sia per natura difficile da quantificare, tutte le stime, anche le più prudenti, rivelano numeri da capogiro. Si stima che il 40% del profitto di gruppi multinazionali venga spostato in paradisi fiscali. Tra i paesi maggiormente colpiti da questo fenomeno troviamo diversi stati europei, quali Germania, Spagna ed Italia. L’Unione Europea nel suo insieme è fonte del 30% del profitto eluso. Inoltre, le stime ci dicono che, solo nell’Unione Europea, il profitto “spostato” abbia causato perdite fiscali annue pari al 18% del totale del gettito delle tasse sulle imprese e pari al 19% in Italia.
Anche secondo uno degli studi più conservatori, il mancato guadagno per le casse dello Stato italiano dovuto al profit shifting sarebbe di 1,5 miliardi di dollari ogni anno. Basti pensare che questa cifra equivale alla metà di tutti i fondi pubblici dedicati ad attività di ricerca e sviluppo in Italia.
Il profit shifting in Europa: un problema comunitario
È fondamentale notare che la maggior parte dei capitali viene spostata internamente all’Unione stessa, in particolare verso Lussemburgo, Irlanda, Olanda e Belgio. Questi paesi non sono veri e propri paradisi fiscali, in quanto non hanno una aliquota di tassazione particolarmente bassa, ma sono caratterizzati da un sistema tributario molto attrattivo.
Ancora prima che a livello internazionale sarebbe quindi necessario rendere più uniforme la regolamentazione a livello comunitario per generare dinamiche di mercato più sane, senza però favorire regimi tributari inefficienti.
La proposta di una tassa globale è tuttavia più complessa della sola discussione sull’introduzione di una aliquota condivisa, già abbastanza omogenea a livello europeo. Come sottolinea Cottarelli, appare fondamentale per l’armonizzazione della tassazione una direttiva comune riguardo al calcolo della base imponibile, cioè l’importo su cui viene calcolata la tassa dovuta attraverso la moltiplicazione per l’aliquota. La Commissione europea si era già mossa nel 2011 in questo senso, venendo però bloccata da alcuni stati membri, Regno Unito e Irlanda nello specifico. La proposta di una base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società (CCCTB) è poi stata ripresentata dalla Commissione nel 2016, avendo come oggetto unicamente le multinazionali; al momento questa è ancora in stallo a causa di discussioni relative all’impatto che avrebbe e alla base giuridica di supporto.
La proposta Usa ha la giusta direzione ma non basta
La discussione sulla tassazione delle multinazionali si è rinvigorita con il progetto Beps promosso da Ocse e G20 e basato su due pilastri: i) l’introduzione di un sistema internazionale di tassazione per le multinazionali giusto e coerente e ii) un’aliquota minima globale.
Un processo di riforma è necessario perché le regole attuali si stanno dimostrando inefficaci nel prevenire l’elusione fiscale, in particolare il profit shifting attraverso transfer pricing: storicamente il principale strumento di contrasto è basato sulla comparazione dei prezzi di transazioni interne ed esterne alla multinazionale. Tuttavia, al di là delle difficoltà intrinseche alla determinazione del prezzo di mercato per i beni intangibili, vi sono anche preoccupazioni circa l’impatto di questa misura sulle transazioni fra multinazionali e imprese locali.
Ma quali dovrebbero essere le finalità di una riforma delle tassazioni delle multinazionali? Anzitutto bisogna evitare distorsioni nell’allocazione degli investimenti: le multinazionali devono decidere di investire dove il capitale è più produttivo e non dove la tassazione è minore. Tuttavia, è bene evidenziare che spesso allo spostamento dei profitti non corrispondono investimenti reali nei paesi di destinazione e pertanto rimpatriare questi capitali non ha diretti effetti sulla occupazione. Altro obiettivo della tassa minima globale è limitare la competizione al ribasso fra i diversi paesi nelle aliquote delle imposte. Infatti, questa competizione non è sempre benigna e guidata da una migliore gestione della spesa pubblica (i paesi più efficienti spendono meno e quindi tassano meno), ma dal vantaggio relativo di alcuni piccoli paesi, soprattutto isole, su quelli più grandi (i paesi più piccoli necessitano di meno investimenti, spendono meno e quindi tassano meno).
Inoltre, una tassa sulle imprese in generale deve garantire che gli azionisti, solitamente parte delle fasce della popolazione più benestanti, non possano eludere le tasse imputando il loro reddito alle imprese che possiedono, poiché questa pratica contribuirebbe all’aumento delle disuguaglianze in termini di reddito.
In conclusione, riteniamo che una tassa minima globale sulle imprese rappresenti un significativo passo avanti e debba quindi essere sostenuta dal nostro paese e dall’Unione europea. Tuttavia, è importante tenere presente che questo strumento presenta molti limiti, che richiedono un approccio più olistico al tema della tassazione delle multinazionali, delle disuguaglianze e della concorrenza in mercati sempre più digitali.
Ha collaborato con Tortuga all’articolo:
Chiara Petrone, romana, classe 97. Dopo la triennale in Economia Politica, ha frequentato il master in Economics presso l’università di Warwick. Lavora come consulente economica su temi legati alla concorrenza e all’energia.